L’appropriazione culturale è un tema che emerge periodicamente nel discorso culturale, riflettendosi anche sul mondo della letteratura e dell’editoria. La pubblicazione negli Usa del libro “American Dirt”, una storia con messicani narrata da un’autrice statunitense, ha riacceso il dibattito. Quando si può parlare di appropriazione culturale? Quando l’accusa è lecita, e quando si rischia la censura o la limitazione della libertà di un artista? E infine, quali sono le implicazioni socio economiche, oltre che culturali? – L’approfondimento

La similitudine tra l’identità di uno scrittore e i personaggi raccontati nelle sue opere (o tra la sua storia di vita e le vicende narrate) è un tema dibattuto negli Stati Uniti di oggi, come conferma il caso di American Dirt (in italiano Il sale della terra, tradotto da Francesca Pe’ per Feltrinelli).

L’autrice, Jeanine Cummins, nel suo quarto romanzo racconta una storia d’invenzione in cui Lydia, libraia messicana che perde la famiglia per mano dei narcotrafficanti, decide di attraversare il confine con gli Stati Uniti per portare in salvo se stessa e il figlio Luca. 

Cummins aveva il diritto di scrivere (e la sua casa editrice – Flatiron – ha fatto bene a pubblicare) una storia lontana dalla sua esperienza, i cui protagonisti appartengono a un’altra cultura? La questione è emersa dopo che la scrittrice è stata accusata di appropriazione culturale, ovvero il fenomeno in cui un membro della “cultura dominante” (dominante dal punto di vista rappresentativo, ma anche economico e sociale) inserisce nelle proprie opere riferimenti più o meno ampi a una “cultura di minoranza”, ottenendo trasversalmente profitti dallo sfruttamento di quei riferimenti.  

Il sale della terra

La domanda “si può scrivere di ciò che non si conosce?” andrebbe quindi specificata: “Si può scrivere di una cultura meno rappresentata della propria?”.

Il dibattito è arrivato (con meno intensità) anche in Italia. Considerando la questione da un punto di vista artistico e stilistico, da una parte c’è chi difende Cummins (e gli innumerevoli autori passati sotto lo stesso scrutinio nella storia della letteratura e dell’editoria), sostenendo che, sotto l’accusa di appropriazione culturale, si nasconda una limitazione della libertà di espressione di un artista, che si basa inevitabilmente sulle contaminazioni tra idee e opere, e che questa, inoltre, rischi di appiattire la narrativa alle biografie o ai memoir.

In questo senso si è espresso Nicola Lagioia, autore del romanzo La ferocia (Einaudi), con cui nel 2015 ha vinto il premio Strega. Intervistato da Linkiesta lo scrittore e direttore del Salone del Libro di Torino ha spiegato: “Si può arrivare per questa strada a sostenere (in realtà lo si è fatto) che un bianco non possa scrivere di afroamericani (e Faulkner?), che un aristocratico non possa scrivere di poveri (e Tolstoj?), che solo una vittima possa scrivere di condizioni vittimarie (e il caso titanico di Victor Hugo?), che un maschio non possa scrivere di una donna e dunque una donna di un maschio (e Flaubert con madame Bovary? E Emily Brontë con Heatcliff?), che un eterosessuale non possa dunque scrivere di omosessuali e così via, mandando in frantumi quello che è il principio stesso della finzione narrativa. E cioè, appunto, il riuscire a mettersi nei panni altrui. Che cos’è, altrimenti, l’esercizio di alterità di cui tanto andiamo blaterando? Certo, non si tratta di un esercizio semplice (…). Tra l’altro, non credo avesse ragione Ernest Hemingway, non devi aver vissuto per forza tutto quello di cui scrivi, però almeno devi ‘essertelo meritato’, come sentii dire una volta giustamente da Walter Siti”.

Nello scritto di Zadie Smith citato da Lagioia e pubblicato su The New York Review of Books, emerge anche l’idea che non poter scrivere di un personaggio diverso da noi sottointende un concetto più profondo ma altrettanto pericoloso, ovvero l’idea che solo chi è simile a noi può capirci o provare empatia nei nostri confronti. Secondo Smith la letteratura parte dalla presunzione che “c’è molto di più nelle persone di quanto queste scelgono di rendere manifesto”, e in questo senso un libro di narrativa può non suscitare la sospensione di incredulità nel lettore, come direbbe Coleridge, ma non può sbagliarsi, in mancanza del giusto e dello sbagliato nello scrivere.

Una pubblicazione dovrebbe basarsi su un lavoro di ricerca approfondito, che riesca a portare la storia narrata a un livello di accuratezza ed autenticità il più alto possibile. Anche se la trama è un’invenzione, l’ambientazione geografica, storica e culturale dovrebbero essere il più possibile aderenti alla realtà. Un punto di vista su cui sembra convenire lo scrittore Giorgio Fontana, vincitore del Premio Campiello nel 2014, intervistato da ilLibraio.it in occasione dell’uscita di Prima di noi (Sellerio). Per scrivere questo romanzo Fontana ha trascorso alcuni anni a studiare e a fare ricerca storica, per “una questione di onestà intellettuale“. Fontana, infatti, sostiene che “lo scrittore ha la responsabilità di non commettere errori” e, come pensa anche Smith, “di costruire personaggi sfaccettati e credibili“. Allo stesso tempo, per Fontana “un’opera non può e non deve ridursi a ciò che riguarda direttamente l’autore. Che poi, anche la definizione di ‘ciò che mi riguarda’, in fondo, non è per niente banale. Cosa mi riguarda veramente? La mia esistenza? Ciò che ho vissuto? Se non sono mai andato nel passato significa che non posso mai scrivere del passato? Credo che in questo modo si rischi di confinare la scrittura di finzione in un pericoloso autobiografismo. Non che l’autobiografismo sia un male, però non deve essere coercitivo…”.

Il libro di Cummins da questo punto di vista sembra porsi sul crinale: su un versante ha ricevuto commenti positivi da celebri scrittori americani, come Stephen King e Don Winslow. Dall’altra ha subito la critica (soprattutto da parte di intellettuali e autori di origine messicana o appartenenti ad altre minoranze), di aver svolto un lavoro superficiale: personaggi stereotipati, uso della lingua spagnola banalizzato, atteggiamento paternalistico, spettacolarizzazione del dolore; secondo questi pareri l’autrice non si sarebbe immedesimata con empatia e umanità nei suoi personaggi e American Dirt sarebbe una storia di persone messicane raccontata in modo da meglio adattarsi a un pubblico statunitense e bianco. A far emergere questi aspetti del libro è stata una recensione pubblicata a metà dicembre sul blog accademico Tropics of Meta, in cui l’autrice, Myriam Gurba, accusa Cummins di essere di parte, sia nella sua narrazione in negativo del Messico, sia nella sua narrazione in positivo degli Stati Uniti. 

Ci si può porre la stessa domanda, già analizzata dal punto di vista puramente letterario, anche dal punto di vista economico e sociale. Tra i molti aspetti della faccenda American Dirt, hanno fatto scalpore l’ingente anticipo ricevuto dalla scrittrice, il suo aver scalato in tempi record le classifiche, l’essere stato scelto tra i titoli del celebre book club di Oprah Winfrey e, infine, l’aver venduto i diritti per l’adattamento cinematografico prima della pubblicazione: la visibilità e le risorse economiche derivanti dalla pubblicazione di una storia su persone messicane sono state convogliate verso una scrittrice appartenente alla “cultura dominante”, piuttosto che su scrittori messicani che avrebbero potuto trovare uno spazio in un settore poco diversificato. 

Dal canto suo Cummins ha premesso di aver voluto scrivere questa storia in buona fede, per il desiderio di dare voce alle storie degli immigrati messicani come individui e per opporsi alla comunicazione mediatica che tratta queste persone come “una massa di persone di colore senza volto”. Diversi scrittori messicani hanno però risposto che vorrebbero che l’industria editoriale desse anche a loro la possibilità di far sentire la propria voce attraverso lo stesso mezzo. Da qui è nata la lettera aperta, pubblicata su Lithub, firmata da 142 scrittori rivolta a Oprah Winfrey, in cui viene chiesto alla presentatrice di rivedere la sua scelta di dare tanta visibilità al libro. Winfrey, in seguito alla polemica, ha rivisto parzialmente la sua decisione, scegliendo di trasformare la serata dedicata al libro in un dibattito in cui potessero emergere entrambe le posizioni.

Il discorso si fa più ampio: c’è chi risponde che potrebbe essere semplicemente questione di qualità letteraria: il libro di Cummins potrebbe aver ricevuto notorietà perché letterariamente migliore delle altre opere sul tema.

Su questo punto si è interrogata anche la giornalista e scrittrice Loredana Lipperini, che sul suo blog Lipperatura ha dedicato più un post al caso-Cummins, generando un dibattito che ha avuto un seguito anche sui social della conduttrice di Fahrenheit (ecco il primo intervento e il successivo). Tra le altre cose, Lipperini si è chiesta: “Quanto vengo limitata come lettrice dalla questione della disuguaglianza letteraria? Molto. Potrò mai parlare male di un libro su Scampia? Di un romanzo antimafia? Di un libro contro il femminicidio? Ho fra le mani, da ieri, Cattiva (Fandango, traduzione di Chiara Brovelli; ndr), proprio di Myriam Gurba. Lo comincerò stasera. Ma la domanda è: se lo trovo qualitativamente criticabile, a dispetto della storia tremenda di stupro e morte, potrò dirlo? Potrò, eventualmente, trovare più potente 2666, scritto da un uomo, cileno, ma da cui ho imparato moltissimo su Ciudad Juárez?”.

Va poi anche considerato quanto poco siano rappresentate le voci di culture di minoranza nel settore editoriale americano: gli scrittori che vengono pubblicati sono effettivamente in maggioranza caucasici. Perché gli altri punti di vista sono meno rappresentati? Può essere solamente un fattore di qualità letteraria? A questo proposito, si è discusso del fatto che anche tra i lavoratori delle case editrici le minoranze sono poco rappresentate, e ciò impatterebbe sulla scelta delle opere da pubblicate.

E anche se si potesse effettivamente decretare secondo criteri obiettivi che un’opera accusata di appropriazione culturale sia un prodotto letterario migliore di altri, obbiettano alcuni, rimarrebbe comunque il fattore responsabilità sociale. Su questa linea si è espressa Chimamanda Ngozi Adichie, che nel pamphlet Il pericolo di un’unica storia ha messo in evidenza come l’idea che ci facciamo di ciò che non conosciamo derivi dalle narrazioni con cui veniamo a contatto. Se manca la diversità nelle voci che hanno la possibilità di pubblicare, si crea un paradigma, un’unica storia appunto, capace di rinforzare pregiudizi e discriminazioni sulle minoranze.

Al di là di come la si pensi, le discussioni legate ad American Dirt hanno contribuito a dare visibilità a quegli scrittori che avevano trattato temi simili da punti di vista differenti e che in precedenza non avevano trovato spazi in cui inserirsi. Alcune librerie, per esempio, hanno deciso di presentare il libro di Cummins insieme a una selezione di titoli scritti da autori di origine messicana a dimostrazione di un bisogno emergente dei lettori: quello di avere un panorama di punti di vista più diversificato dal quale attingere.

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