Copiare a scuola impedisce di distinguere il vero merito di ciascuno. Non solo: compromette l’intera riuscita dell’insegnamento… Su ilLibraio.it l’intervento di Simonetta Tassinari, insegnante e scrittrice, in libreria con “La sorella di Schopenhauer era una escort”

Il “copiare”, di per sé, non è affatto una colpa, piuttosto un aspetto essenziale di ogni apprendimento, a cominciare da quelli più basilari. La tendenza all’imitazione ci spinge a parlare, riproducendo i suoni che ascoltiamo; si entra nel proprio sesso prendendo i genitori come modelli; si imitano i contemporanei, gli amici, i maestri, le persone famose, i belli, i potenti. Anzi: diciamo pure che ogni vita è tutta un copiare. La moda è uno degli esempi più evidenti del fatto che somigliare agli altri profondamente ci conforta, ci rassicura, ci dice chi siamo. Perfino una delle mode più assurde della storia, costosa e ridicola, come la parrucca a boccoloni che imperversò in Occidente tra la seconda metà del Seicento e il Settecento, spazzata via solo dalla Rivoluzione (e neanche tanto, se i giudici di alcuni paesi ancora ne fanno uso), diede il via a un’epidemia di copiature: i ricchi, i nobili, i borghesi la indossavano, perciò la si doveva indossare per non sentirsi esclusi. Senza trascurare le parole: durante un decennio tutti hanno detto “cioè” , “nella misura in cui” e “colf”; in quello successivo hanno imperversato “lo zoccolo duro” e “l’attimino”, per planare attualmente in un orizzonte fatto di “ciaone” e di “piuttosto che”, in un senso che fa accapponare la pelle ai grammatici. In fondo essere imitati per come ci si veste, ci si muove o si parla, magari male, è lusinghiero, e tutti siamo disposti ad accettarlo; come sostiene un’antica sentenza greca, non è felice l’uomo che nessuno invidia, ed è quantomeno probabile che in una qualunque imitazione, assieme all’invidia, ci sia, ben mescolata, anche l’ammirazione. Insomma, si tratti dell’istinto gregario che ci porta a tagliarci tutti i capelli, o ad accorciare le gonne, a tatuarci e a infilarci un piercing nel naso, essere simili agli altri ci dà la sensazione di ancorarci a un terreno più solido di quello puramente personale.

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Esiste comunque un copiare che la stessa società, la quale approva la diffusione di comuni modelli di comportamento, anche linguistico, e, abbastanza spesso, reprime chi se ne discosta, non può accettare, pena la sua stessa crisi interna e il venir meno dei fondamenti: il copiare il frutto dell’intelletto. A ben vedere, implicitamente si stabilisce in tal modo che quel che si può definire a largo raggio spirituale è superiore quel che è fisico o materiale. Come dire: non si potrà falsificare o riprodurre una marca o un disegno, ma il modo in cui le componenti materiali di un oggetto che piace, o di un abito, sono messe insieme, la loro foggia, i loro colori, sono liberamente imitabili. È l’idea che si considera, giustamente, tabù, e fingere che quel che si scrive, si dice, si dipinge, si mette in musica sia frutto del proprio intelletto, e non farina del sacco altrui, è considerato odioso, turpe, disonesto, capace di far saltare equilibri e quella minima giustizia che, con tutti i limiti, si cerca di mantenere in ogni ambito. Tant’è vero che il plagio è un illecito penale, benché, anche in questo caso, ci si muova in mezzo a una palude di “se” e “però”. La contaminatio degli autori latini che abbiamo studiato al liceo non è forse una forma di copiatura intellettuale? E che dire delle citazioni, con le quali si giustificano gli autori e i registi che hanno preso di qua, hanno preso di là? Non si tratta pur sempre di un copiare, sebbene più sfumato ed elegante? E in certe scuole di scrittura non si insegna, in un certo modo, a copiare dagli altri, anzi ad ispirarsi? (Il fatto stesso che il concetto si possa esprimere in tante maniere è già, di per sé, indicativo).

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Tuttavia, quando si tratta del copiare a scuola, di dubbi non ce ne sono: si tratta senz’altro di una colpa, perché impedisce di distinguere il vero merito di ciascuno, imbroglia le acque, falsifica le valutazioni e, di conseguenza, compromette l’intera riuscita dell’insegnamento, e anche il suo valore. In La sorella di Schopenhauer era una escort ho riportato le conseguenze, spesso esilaranti, di un malvagio copiare, orecchiare, sbirciare, pur di accedere a Wikipedia in classe mediante lo smartphone- ovviamente senza che il prof se ne accorga – per riceverne l’”aiutino” reso celebre dai quiz televisivi (e, per carità, spero che il resoconto del modo in cui spesso i ragazzi ci riescono, e ci ingannano, non venga preso come un invito a copiare i copiatori, bensì come un semplice, e talvolta sconfortato, resoconto di un prof i cui nemici si sono moltiplicati e sono ben nascosti dappertutto). Mi sono inoltre lanciata in una (piccola e modesta) teoria interpretativa del perché si copi, elaborando anche una concreta statistica delle scuse e delle spinte emotive decisive a far sì che spesso durante un compito in classe si tenti il tutto per tutto; studiare sarebbe stato, senza dubbio, meno faticoso e impegnativo. Insomma alla domanda in flagranza di reato “perché mai hai copiato?”, le risposte più frequenti sono state: a) è stata una soluzione di emergenza; sono sempre stato leale e sincero, preferisco andare avanti con le mie forze, è che proprio stavolta non ce l’avevo fatta a studiare, il motorino non funzionava, mia madre ha bruciato il pranzo, la mia sorellina ha pianto ininterrottamente per tutto il pomeriggio e anche la lavatrice non stava troppo bene; b) non ho assolutamente copiato; non so che cosa ci facesse quello smartphone nel mio calzino, non l’ho mai visto; e come faccio a sapere, prof, il motivo per cui uno smartphone che non ho mai visto si è infilato nel mio calzino? c) sono un insicuro, vado dallo psicologo per questo, mi sto curando. Lo smartphone per me è una specie di talismano, lo chieda a mia madre, prof, se non mi crede, ma io non l’ho neanche guardato; d) i miei genitori sono anziani e sono figlio unico; ci tengono così tanto che io vada bene a scuola che non volevo deluderli, ma questa è stata la prima e sarà l’ultima volta, prof.

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Esistono anche casi, stavolta di reale insicurezza, di ragazzi che non avrebbero alcun bisogno di copiare dagli altri, invece lo fanno e sbagliano, mentre, se avessero fatto da soli, non avrebbero sbagliato. Indubbiamente occorrono nervi saldi – benché Russell abbia scritto che “una sciocchezza rimane una sciocchezza anche se la dicono cinquanta milioni di persone”- per attenersi alla propria soluzione se ci si accorge che il resto della classe è arrivato a un altro risultato. Titubare è naturale; tirare una riga su quanto si è già scritto (di corretto) anche. E noi prof, già in lotta contro la classica e sempre serpeggiante – non solo in età così giovane- voglia di far niente, assediati da smartphone e Wikipedia e Google, la Tentazione numero uno, nel quale si trovano tradotte tutte le versioni, dove compaiono tutte le formule, le date, i concetti, i nomi che tanto affanno ci causano mentre cerchiamo di ficcarli in testa ai nostri alunni, tentiamo, tenteremo ancora di resistere, affinando dove possibile i nostri sensi, spronati senza dubbio dall’obbligo morale connesso alla nostra professione, ma anche per svolgere la nostra parte nel tentativo di convalidare le leggi di natura in campo umano. Tentativo al quale, tutto sommato, anche la difesa della piccola verità di una prova scolastica contribuisce.

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L’AUTRICE * – Nel 2015 Simonetta Tassinari ha pubblicato La casa di tutte le guerre, romanzo ambientato in Romagna nell’estate 1967. Il 6 ottobre il suo ritorno in libreria con Simonetta Tassinari.

Sarà un libro per i genitori, per i ragazzi, per chi non è genitore e non è neanche un ragazzo, per i curiosi, per chi vuole sorridere, e leggere, della scuola italiana. Un ritratto divertente della generazione smartphone-munita, che va alla radice del bisogno di fingersi più bravi di quel che si è.
L’autrice è nata a Cattolica ed è cresciuta tra la costa romagnola e Rocca San Casciano, sull’Appennino. Vive da molti anni a Campobasso, in Molise, dove insegna Storia e Filosofia in un liceo scientifico. Ha scritto sceneggiature radiofoniche, libri di saggistica storico- filosofica e romanzi storici.

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