“Rifondata sulla Bellezza” è il primo libro del giornalista d’inchiesta Emilio Casalini: un viaggio nato dal desiderio di capire perché l’Italia non sfrutta le grandi possibilità che possiede. Su ilLibraio.it un estratto…

Emilio Casalini è un giornalista, collabora con Report dal 1997 e, prima come fotoreporter e poi come giornalista televisivo e conduttore radiofonico, racconta il mondo e l’Italia attraverso inchieste, documentari e reportage. Nel 2012 ha vinto il premio Giornalistico Televisivo Ilaria Alpi per il migliore reportage italiano breve con Spazzatour.

Rifondata sulla Bellezza è il suo primo libro, ed è pubblicato da Spino, casa editrice al debutto da lui stesso fondata. Parla di un viaggio, iniziato con un ebook, nato dal desiderio di capire perché l’Italia non sfrutta le grandi possibilità che ha. Di queste il turismo è la più sana, e può funzionare come uno specchio in cui osservare il nostro Paese con occhi diversi. Per esempio quelli di chi ci viene a trovare: stranieri stupiti dalla bellezza del nostro Paese ma annichiliti dall’incuria e dalla disorganizzazione che lo caratterizza.

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Casalini ha perciò raccolto nel suo libro tante piccole inchieste, fatte per capire perché il sistema-Italia non funzioni come potrebbe, e le rivolge a tutti noi, noi italiani che siamo i primi a dovere, volere fare qualcosa. Prenderne coscienza è il primo passo. Cambiare il secondo. Goderne i frutti il terzo.

Per sostenere l’uscita del libro senza condizionamenti o vincoli esterni, l’autore come anticipato ha fondato nel giugno 2016 Spino Editore. Spino è un portafortuna di legno che accompagna Casalini da molti anni. Lo segue ovunque e con lui osserva il mondo con quel suo sguardo ligneo e intenso che solo i ricci intagliati possono avere. Ora è anche il nome della nuova avventura editoriale.

Cover - Rifondata sulla bellezza BASSA

Su ilLibraio.it, per gentile concessione dell’editore, un estratto dal libro:

Identità

Pechino, Cina, 9 luglio 2011
Entro nel parco Beihai, proprio dietro la Città Proibita, a Pechino, e mi trovo, magicamente, lontano dal caos e dalla cappa di inquinamento che avvolge tutto. Passeggiando tra sentieri e laghetti incrocio un vecchio che sembra avere svariati secoli incisi nelle rughe del volto. Vestiti logori, movenze morbide e lente, raccoglie dei cartoni abbandonati dietro un piccolo bar. Lo fanno tutti i poveri, qui a Pechino: tirano su ogni tipo di rifiuto riciclabile e lo portano nei punti di raccolta disseminati nei quartieri dove gli oggetti recuperati vengono accatastati per tipologia, pesati, comprati e poi caricati sui camion destinati ai grandi centri di riciclo. Per qualche cartone e una decina di bottiglie di plastica raccolte, il vecchio riceverà pochi centesimi, a malapena sufficienti per una manciata di riso. Ma è quello che gli serve per sopravvivere. La grande crescita economica cinese del +8% annuo non lo ha sfiorato.

Nelle vicinanze una coppia di ragazzi, vestiti con abiti casual firmati, sta mangiando un gelato mentre la musica dell’iPad si diffonde nell’aria. Finita la raccolta, impacchettati con ordine i cartoni sul piccolo carretto agganciato alla bici, il vecchio si siede sulla riva del laghetto e osserva l’acqua verde in silenzio. Poi all’improvviso, senza alcun motivo apparente, un silenzioso ampio sorriso gli illumina il volto. Mi avvicino a lui e, grazie a un’amica che mi accompagna e mi fa da interprete, gli chiedo se è felice. Mi guarda stupito.

«Certo. Perché non dovrei esserlo?».
«Perché è povero».
«Sì, sono davvero tanto povero», replica, e annuisce sorridendo.
«Ma gli altri, quei ragazzi lì, per esempio, sono ricchi. Tutti si stanno arricchendo, in Cina. Lei no».
«Io no, è vero. Ma sono felice perché sono cinese».
«Non capisco…».
«Vedi, io sono cinese e sono povero. Quel ragazzo è cinese ed è ricco. Siamo uniti perché cinesi. Non ha importanza che si tratti di me o di lui: quei bei vestiti stanno a significare che noi cinesi, come popolo, stiamo diventando ricchi. Quella coppia, mio figlio, il mio vicino di casa… in modi diversi, milioni di cinesi stanno diventando benestanti, e alcuni anche molto ricchi. Non possiamo esserlo tutti nello stesso
momento; non è una magia, è una scelta, un cammino che stiamo compiendo insieme, ognuno facendo la propria parte. Il mio destino è quello di essere povero, di sopravvivere senza danneggiare nessuno e di morire povero. Non pretendo nulla per me, non peso sulla comunità, so arrangiarmi. Questo è il mio contributo al nostro sviluppo, il mio dono ai nostri figli: morire povero. Io sono sereno perché vedo che il mio popolo finalmente sta tornando a essere quello che gli hanno impedito di essere per troppo tempo. Ecco perché sono sereno: perché sono cinese».

Poi si allontana, sempre sorridendo, povero di beni materialima ricco di orgoglio e di spirito di appartenenza.

Chi siamo
Pensiamo al nostro di orgoglio. Nostro, inteso come collettività, come popolo, cioè di cosa possiamo essere davvero fieri in quanto “italiani”. È difficile trovare una ragione che ci unisca davvero, qualcosa che ci permetta di identificarci tra noi e, allo stesso tempo, ci differenzi dagli altri.

Il vecchio seduto sul laghetto sa esattamente cosa significa essere cinese nell’oggi della sua storia. Non ha nemmeno bisogno di spiegarlo razionalmente: lo sente, quindi è. Lui si sente parte di un flusso che, indipendentemente dalla direzione presa, indipendentemente dalle scelte del “Comitato Centrale”, indipendentemente dalla politica economica più o meno liberista, lo porta con sé. Lui ne fa parte. E tanto basta a sentirsi cinese.

Se dovessimo sederci intorno a un tavolo e chiederci se ci sentiamo italiani, sicuramente risponderemmo di sì. Se poi però dovessimo rispondere a cosa sia dovuta questa sensazione, forse inizierebbero i problemi perché quell’appartenenza a un flusso comune, contemporaneo e diretto in una direzione, qualunque essa sia, è difficile trovarla. Possiamo allora provare a cercarla nella nostra storia, per trovare un’origine comune che ci avvolga sotto uno stesso mantello. Siamo i figli dell’Impero Romano che ha unito il territorio con le sue strade e le sue legioni, del Rinascimento che ha coperto d’arte eccelsa tutto il nostro territorio, del Risorgimento ammantato di retorica che ci ha, almeno di fatto, uniti sotto un’unica bandiera. Dante, Leonardo, Caravaggio, Michelangelo diventano i nostri paladini per costruire un’identità comune. Scritta sui libri, e narrata nelle scuole, non percepita come un sentimento vivo e condiviso nel quotidiano.

Il vecchio cinese, sentendo di appartenere a un flusso comune, sa verso quale direzione è diretto. E per questo può permettersi di non condividerlo, di contrastarlo o di assecondarlo. Senza mettere in discussione la propria identità. Noi, restando aggrappati a ciò che siamo stati, abbiamo difficoltà a capire ciò che siamo. Figuriamoci a immaginare quello che potremmo essere. La nostra idea di popolo è quindi collocata in quello che non c’è più. Dell’oggi ci restano solo scampoli di brand famosi.

Per molti, infatti, il sentimento di orgoglio nazionale scatta quando il mondo celebra la moda italiana, che tanto italiana nemmeno lo è più. Per altri lo stesso sentimento si sprigiona quando la Ferrari vince un campionato e tutti i media celebrano “l’italianità” della vittoria. Tangibile dal punto di vista pratico,
soddisfacente dal punto di vista sensoriale, ma irrisoria rispetto al valore assoluto che dovrebbe avere l’identità di un popolo.

L’apoteosi si raggiunge nel sentimento di unità che accomuna l’intero popolo nel momento in cui la nostra nazionale di calcio vince i Mondiali. Una sensazione che coinvolge allo stesso modo anche i cittadini di qualsiasi altra nazione. La differenza tra noi e loro non sta nel sentimento condiviso di quel
momento, ma in tutto quello che ci sta dietro. Molto altro per tanti popoli e molto poco per il nostro.

Nel mondo, ci chiamano “mafiosi”, “spaghetti”, “pizza”, “mamma”, “mandolino”. Ci immaginano molto casinari e inconcludenti. Spesso a ragione perché il caos fa parte della nostra quotidianità, come lo spregio delle regole, il disordine e la sporcizia delle nostre strade, i trucchi per bypassare le leggi o le code.

Ma se pensano all’arte che ispira palazzi e arredi, allo stile che contamina designer di ogni settore, all’eleganza diventata il riferimento per definizione, alla musica dove i testi in lingua italiana affascinano al punto da far vincere perfino i talent show stranieri, alla genialità, alla creatività, alla bellezza,
allora pensano a noi. Due associazioni mentali assolutamente contraddittorie. Per gli altri popoli le connessioni sono più lineari.

Se ci chiedessero di definire i tedeschi, ad esempio, penseremmo all’ordine, all’efficienza e alla solidità. E se ci chiedessero di immaginare un popolo con le caratteristiche dell’ordine, dell’efficienza e della solidità, ci verrebbero subito in mente i tedeschi. Così con gli svizzeri: pensiamo a un popolo
preciso e ci vengono in mente loro, pensiamo agli svizzeri e ci viene in mente la precisione.

Semplice e logico, il flusso funziona in entrambe le direzioni. Pur infarcita di stereotipi, ogni popolo ha una sua identità. Noi meno. E nasce la confusione.

Gli italiani e l’Italia viaggiano su due binari paralleli: la nostra realtà sembra dissociata dalla nostra terra e dalla nostra storia. Servirebbe un cambio di passo dell’intera comunità per riunirli: milioni di persone coinvolte in una visione condivisa, in un progetto finalizzato anche alla creazione di una propria identità di popolo. Un’identità di cui essere fieri e che ci renda riconoscibili nel contesto internazionale.

Bellezza
Immaginiamo che, sul passaporto con cui l’Italia si presenta al mondo, al punto “segni particolari”, sia indicata una sola parola: bellezza.

Compresa da tutti anche se scritta in italiano.

E immaginiamo che nel mondo, sentendola, pensino a noi e ci restituiscano un’identità riconoscibile e riconosciuta.

Una scelta identitaria basata su ciò che noi italiani abbiamo nel DNA, che ci riempie gli occhi dal primo giorno di vita e ci accompagna fino a quando li chiudiamo, nascosta dietro montagne di rifiuti, dietro catene di abusi edilizi, dietro nebbie etiche e morali.

Un termine che, per avere valore, non ha bisogno di una definizione oggettiva, assoluta, dottrinale o scientifica, ma si appoggia sull’esperienza soggettiva, personale ed emozionale di ognuno. E in modo naturale si delinea in un concetto condiviso. Per giungere a questo grado di coscienza collettiva è necessario un progetto dalla direzione ben chiara, politico e sociale, ampio e comune, che si proietti nei decenni futuri per legare un popolo a un percorso identitario.

Una pianificazione che vada ben oltre la vita di una o due legislature, oltre l’esistenza di molti di noi. Che richieda impegno e porti risultati.

Il turismo può rendere tangibile, sperimentabile e verificabile, nel suo procedere, questo percorso identitario. Può diventare lo strumento, non il fine. Uno strumento per recuperare il terreno perduto,
l’identità perduta. O meglio, celata. Uno strumento con caratteristiche uniche.

Il turismo è, per sua natura, una convenzione internazionale di pace e scambio tra i popoli. La sola presenza di un viaggiatore straniero in un contesto rurale chiuso porta a un arricchimento e a un’apertura mentale istantanea. È inclusivo, funziona al meglio assecondando le regole
della collaborazione e mai dell’esclusione del vicino. È basato sull’accoglienza: ascolto prima, e dialogo poi. Si declina in molte lingue, come le sfaccettature di un’umanità sempre più prossima a noi.
È ecologico, perché si nutre di un ambiente sano, pulito, rispettato: più si tutela l’ambiente più si sostiene il turismo e viceversa.

Ha un’etica sociale, perché massimizza la valorizzazione dell’esistente e il rispetto degli altri. È diffuso sul territorio, dove ridistribuisce i benefici in modo più ampio rispetto ai profitti dei grandi gruppi aziendali estremamente concentrati. Se ben organizzato può rispondere più facilmente e velocemente
alle sollecitazioni di un mercato in costante mutazione, di sicuro molto più della grande produzione industriale. È il volano per infiniti altri settori economici e da questi ne trae ugualmente energia e sviluppo. Facilita la circolazione della moneta in modo rapido ed efficace. Cresce in modo orizzontale e contamina, positivamente, ciò che lo circonda. È un settore di sviluppo estremamente moderno, basato
sulla comunicazione, sulla narrazione delle proprie peculiarità, della propria storia, delle proprie tradizioni, siano culturali, artistiche o enogastronomiche.

Questo chiede un viaggiatore moderno: di poter conoscere e condividere, apprendere e portare con sé, nuovi saperi e inediti sapori.

Il Grand Tour era il turismo per i ricchi privilegiati del XVII e XVIII secolo. Oggi il mondo è più aperto, più vicino e più raggiungibile da tutti. Milioni di persone partono ogni giorno per scoprire nuovi luoghi, nuove culture. Vanno a incontrare nuove identità. La nostra è una delle più affascinanti e ci chiedono di condividerla.

Incontrandola la riconoscono, e quindi ci riconoscono, e ci aiutano a ricordare chi siamo. Milioni di persone sono pronte a pagarci proprio per poter soddisfare questo desiderio. Ma non basta avere monumenti, cibo o paesaggi per convincere un viaggiatore a venire da noi, né, soprattutto, a tornarci.
Bisogna davvero recuperare ciò che siamo per offrirlo poi nel modo migliore.

Dobbiamo togliere la polvere dalle mensole della nostra storia e far risplendere di luce naturale ciò che vi è sopra. Luce autentica, non artificiale. È la nostra identità. Dobbiamo esserne pienamente consapevoli, così che ci venga spontaneo raccontarlo in modo naturale e affascinante, perché è anche la nostra coscienza.

E infine è necessario capire che l’ospite è sacro, va trattato come noi vorremmo essere trattati. Accolto in un ambiente pulito, ordinato, come quando un ospite importante entra in casa nostra e noi sistemiamo con cura le sedie, i cuscini sul divano, laviamo i piatti, diamo una pulita al pavimento e gettiamo
la spazzatura.

Eccole qui le chiavi per far funzionare il turismo: identità, coscienza e rispetto.

Ossia esattamente quello che servirebbe per vivere meglio anche noi. Perché il turismo ha questo immenso, specifico vantaggio: tutto quello che facciamo per accogliere chi arriva da lontano, alla fine lo facciamo anche per noi.

Tutte le azioni che facciamo per migliorare la nostra quotidianità sono le stesse che rendono gratificante l’arrivo e la permanenza di un viaggiatore. È un processo perfettamente intrecciato come un nastro di Möbius.

Curare le patologie decennali di questo speciale settore economico e così vivere tutti meglio. Sanare il deficit di inciviltà del nostro sistema di vita per migliorare la nostra occupazione. Nel momento in cui i due processi torneranno a essere davvero paralleli, quella distanza tra la percezione che, come popolo, abbiamo di noi e la percezione che gli altri hanno dall’esterno, diminuirà progressivamente fino a parire.

La magia del turismo, forse, sta proprio qui. E adesso proviamo a scoprire quanto ne vale davvero la
pena.

(continua in libreria…)

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