In “Non è un mestiere per scrittori” Giulio D’Antona ci porta alla scoperta del leggendario mondo della letteratura americana contemporanea… – Su ilLibraio.it due estratti dal suo reportage

Un pellegrinaggio alla scoperta del leggendario mondo della letteratura americana contemporanea. Scrittori famosi e sconosciuti, ricchi agenti, editor scoraggiati, librai carichi di racconti e redattori geniali rivelano come funziona il più importante mercato editoriale del pianeta, un’industria culturale che influenza profondamente il nostro immaginario.

Da Teju Cole a Jennifer Egan, da Lorin Stein a Jonathan Lethem, dall’università dove insegnava Wallace al bar dove scrive Nathan Englander, percorrendo l’America a piedi, in pullman e in aereo dall’East alla West Coast, dagli attici di Manhattan e alle tavole calde del Midwest, si compone l’immagine della Mecca Pop della letteratura.

Arriva nelle librerie per minimum fax Non è un mestiere per scrittori. Vivere e fare libri in America di Giulio D’Antona, giornalista culturale specializzato in letteratura americana, che vive tra Milano e New York, collabora con varie testate e  tiene il blog Americanish, dedicato alla letteratura americana.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo due estratti dal volume:

La sera in cui ho cominciato a pensare a quanto la televisione sia entrata prepotentemente nella vita degli scrittori, fornendo una via di fuga all’insegnamento e un’alternativa concreta alla fame, ero intrappolato tra due fuochi.
In un angolo della sala da pranzo di un celebre salotto di New York, Gay Talese, in completo di lino chiaro benché la primavera fosse appena iniziata, cravatta regimental, camicia collo francese, anello Chevalier d’oro all’anulare destro e bastone, intratteneva due o tre giornalisti che conoscevo e con i quali non avevo molta voglia di mischiarmi. Nell’angolo opposto, Joyce Carol Oates, in completo da sera con strascico corto, seduta in punta di poltrona, parlava di pugilato con due americani che non conoscevo e che sembrava non morissero dalla voglia di conoscere me. Da qualche parte c’era anche Elizabeth Strout, autrice della raccolta di racconti interconnessi Olive Kitteridge285 ma non riuscivo più a individuarla. Ero riuscito solamente a esprimerle la mia stima nell’arco di una stretta di mano, prima che qualcun altro la scortasse lontano da me. Mi restava l’attore Matt Dillon esattamente al centro della sala, con una mano sulle tartine di patate e l’altra a cingere le spalle della sua bellissima accompagnatrice, per improvvisare una conversazione di alto livello.
Ci siamo concentrati sulla mia cravatta e sul fatto che fossi l’unico a indossarne una. «Ci vuole coraggio», mi ha detto Dillon, e ancora adesso non so se ritenermi offeso.
Dopo una serata passata a contenere ammirazioni ed emozioni, cercando di tenere alto il tenore della conversazione con chiunque incontrassi per paura di non sapere chi mi trovavo davanti, quando la gente ha cominciato a defluire, Talese e la Oates hanno preso la loro strada, Dillon si è eclissato e di Strout avevo perso le tracce, così ho finalmente potuto cominciare a cercare un posto dove sedermi e qualcuno che mi sembrasse adatto per lasciarmi andare in quattro chiacchiere senza pretese.
Ho trovato Richard, un americano al quale non mi ero ancora presentato, in scarpe da ginnastica, t-shirt e berretto. Quanto di più distante dalla meravigliosa, ma allo stesso tempo sconfortante, parata di qualche ora prima.
«Ehi», me la sono sentita di esordire.
«Ehi», mi ha risposto lui, rimettendo in equilibrio le sorti di una conversazione che per un momento si sarebbe potuta trasformare in una catastrofe.
Abbiamo parlato di baseball, della sua infanzia nel quartiere italiano di Bensonhurst, a Brooklyn, e del piccolo paese della Puglia dove è nato suo padre e ogni anno si promette di visitare, senza mai riuscirci.
A un certo punto gli ho posto la domanda di rito: «Cosa fai?»
«Lo sceneggiatore». «Oh. Hai scritto qualcosa che posso conoscere?» «L’ultima cosa che ho scritto è stata Dietro i candelabri286, la biografia romanzata di Liberace». «E la prima?» «La leggenda del re pescatore287». Per la sua prima sceneggiatura è stato nominato all’Oscar e si racconta che Julia Roberts non accetti una parte prima di avere la certezza che Richard La Gravenese abbia il tempo di rivedere i suoi dialoghi. È famosa la storia secondo la quale, a riprese iniziate, l’intero copione di Erin Brockovich288 sarebbe stato completamente stravolto per volere dell’attrice, senza che l’intervento di Richard lasciasse traccia nemmeno nei titoli di coda.


285. Fazi, Roma 2009, traduzione di Silvia Castoldi. Dai racconti è stata tratta una miniserie televisiva da hbo.
286. Diretto da Steven Soderbergh nel 2013.
287. Diretto da Terry Gilliam nel 1991.
288. Diretto da Steven Soderbergh nel 2000, il copione originale era stato scritto da Susannah Grant.

 

Su Andrew Wylie

Andrew Wylie è un animale che nella vasca degli squali nuota misteriosamente. Secondo natura, non dovrebbe nemmeno respirare sott’acqua, ma lo fa. È come se avesse sviluppato un sistema branchiale costringendosi a tenere la testa sotto la superficie finché non si è abituato. Per molto tempo lo hanno chiamato «sciacallo» e a lui è andata benissimo così. Però somiglia a una varietà di altre bestie da serraglio: una lucertola, una iena, un velociraptor. Sicuramente appare selvaggio agli occhi dei colleghi ai quali ha soffiato i clienti, una delle pratiche più difficili e preziose degli agenti. «Sciacallo», che ora non gli si taglia più addosso per vari motivi, non è il termine più adatto di sicuro, perché Wylie è un predatore, non uno spazzino. Gli sciacalli si accontentano dei resti delle prede morte, gli agenti lavorano con prede vive. Tanto più vive e difficili da acciuffare se sono protette da un predatore rivale. Mi piace pensare a Wylie come a un leone, abbastanza tenace da affrontare lo scudo protettivo della mandria per poter mettere gli artigli sul pasto più ambito. Oppure come a una larva di libellula – uno degli animali più crudeli e determinati che esista in natura – che aspetta la preda appena sotto la superficie dell’acqua per balzarle addosso con tutta la sua forza, sia essa un suo pari o un animale tre, quattro, cinque volte più grande. Non ha pensieri, la libellula, tranne quello di continuare a cacciare.
Un agente in grado di strappare un (buon) contratto dalle mani di un rivale dimostra due abilità: quella di saper riconoscere un affare conveniente e quella di non accettare la sconfitta. Se uno scrittore deve pensare alla persona che lo rappresenterà di fronte al proprio futuro editoriale, specialmente in tempi incerti, è meglio che questa persona sia accanita, coraggiosa e disposta a tutto. Capita di leggere e di sentir parlare di un tempo chiamato «prima di Wylie», nel quale i clienti delle altre agenzie erano sacri e la rivalità era ridotta al minimo, per via di un accordo tra gentiluomini simile a quello che regola il rapporto tra rappresentanti e rappresentati. Ma quell’epoca è passata e in questi tempi malfermi è Wylie a fare le regole.
«Non ci sono molti agenti a New York che possano dire di non aver perso il cliente per mano sua», scriveva Leon Neyfakh nel 2008104. Mentre scrivo queste righe probabilmente non ce n’è più nessuno.
Nel 1995 Wylie frequentava il mercato da una quindicina d’anni e si era già assicurato alcuni clienti tra i più ambiti e aveva conquistato parte della fama che lo precede. La sua agenzia, fondata nel 1980 a New York, era a un passo dal conquistare Londra – un altro suo tratto distintivo è che, avendo un piede in ogni continente, è nella posizione di dominare da solo due mercati, senza doversi affidare a intermediari. Lo scrittore britannico Martin Amis era rappresentato da Pat Kavanagh, moglie del suo caro amico Julian Barnes e agente di grande fama105. Amis aveva pronto il romanzo L’informazione106 e Wylie aveva pronta la sua offerta. Non è chiaro di quanto abbia scalzato la concorrenza, ma sicuramente la cifra che l’allora ancora Sciacallo è riuscito a spuntare all’editore superava i cinquecentomila dollari di anticipo ottenuti da Kavanagh di quel tanto che bastava a convincere Amis ad accantonare la sua amicizia di lunga data, il suo rapporto lavorativo e anche il suo attaccamento al suolo natale, per passare dalla parte dell’americano. Gli agenti non hanno paura a parlare di quattrini, a maneggiare i quattrini e a privarsi del dovuto per i propri clienti. Sanno che tutto tornerà e le cifre si pareggeranno.
L’agenzia di Wylie, oggi, conta più di settecento clienti tra i quali figurano Philip Roth, Salman Rushdie, Dave Eggers, Elmore Leonard e David Byrne, ad esempio. Ma anche Al Gore, Nikolas Sarkozy e Henry Kissinger. E poi ci sono quelli di cui detiene i diritti dopo la morte: Roberto Bolaño, Vladimir Nabokov, Arthur Miller, Allen Ginsberg, Italo Calvino, William Burroughs, Saul Bellow, in una parata di geni che basterebbe da sola a ribaltare le scrivanie delle agenzie rivali. Non ci sono molti bestseller, perché non li ha mai voluti. In più occasioni e con forza ha sostenuto che non è sua intenzione stare seduto a leggere la lista dei titoli più venduti sperando di accaparrarsene qualcuno. Di più: non è nemmeno il suo mestiere.
Quando ha deciso di farsi carico dei diritti degli altri, lo ha fatto tanto per spirito di innovazione quanto per estetica della professione. Cercava lavoro come editor e i personaggi che si vedeva sfilare davanti durante i colloqui erano la forma fisica di tutto quello che disprezzava nella letteratura. «Vecchi, seduti nei loro uffici polverosi con i rampicanti alle finestre, sembrava che non avessero fatto nient’altro per tutta la vita che starsene lì, impassibili».
Lui era diverso. Voleva essere diverso. Voleva rinunciare al privilegio di sentirsi scorrere il talento degli altri tra le mani per creare nuovo talento dalle radici. Il suo mestiere, sapeva, non era stare ad aspettare, ma uscire in esplorazione.


104. Nel suo profilo di Andrew Wylie intitolato «Week of the Jackal» sul New York Observer del 24 giugno 2008.
105. Tra i cui clienti figuravano Hermione Lee e John Irving, ad esempio.
106. Einaudi, Torino 1996, traduzione di Gaspare Bona.

 

© Giulio D’Antona, 2015
© minimum fax, 2016
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(continua in libreria…)

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