La vita di Luciano Bianciardi (1922-1971) si è svolta all’insegna della militanza culturale, dal lavoro in Toscana a quello a Milano, dove ha pubblicato il suo capolavoro: “La vita agra” – L’approfondimento

Luciano Bianciardi arriva a Milano in estate, a giugno, quando il verde degli alberi sulle circonvallazioni dà un’illusione di tregua dalla canicola estiva. Passeranno diversi mesi prima che impari a conoscere il grande segreto della città, quella nebbia che farà osservare con stupore al protagonista del suo romanzo più celebre, La vita agra. Bianciardi, a Milano ci arriva per lavoro, come tutti negli anni Cinquanta, un lavoro in una nuova casa editrice che, in quei mesi, sta nascendo dalla mente di Giangiacomo Feltrinelli.

Il lavoro culturale nella campagna Toscana

Luciano Bianciardi nasce in Toscana, a Grosseto, nel dicembre del 1922. Dal padre, impiegato bancario, scopre la passione per la storia del Risorgimento, che rimarrà una costante nella sua produzione letteraria anche a decenni di distanza. La sua è una generazione già spezzata dall’imminente conflitto mondiale, a cui anche Bianciardi, data l’età, è costretto a partecipare nelle vesti di allievo ufficiale in Puglia. Un’esperienza per certi versi meno dura di quella di scrittori a lui contemporanei, ma che non può non segnarlo con i suoi orrori. Tornato in Toscana, Bianciardi si dedica anima e corpo a un lavoro culturale che è per lui fin da subito linfa vitale e al contempo fonte di delusioni e frustrazioni. Insegnante nella stessa scuola in cui ha studiato, Bianciardi lavora anche come giornalista per varie riviste e quotidiani (tra cui la Gazzetta di Livorno e l’Avanti!), fonda un cineforum che non scuote più di tanto la sete di avanguardia dei grossetani, e con Carlo Cassola, cui è strettamente legato, organizza un’iniziativa che oggi verrebbe salutata con toni estasiati sulle pagine culturali: un bibliobus per portare la lettura anche nelle zone di campagna più remote.

Carlo Cassola e Luciano Bianciardi

Sempre con Cassola, Bianciardi si occupa di un’inchiesta che sarà di vitale importanza nell’esperienza umana e politica dello scrittore: si tratta di un’indagine sulle miniere della Maremma, che cambia bruscamente significato dopo la drammatica morte di 43 minatori per l’esplosione, nel 1954, della miniera di Ribolla di proprietà della Montecatini. I minatori della Maremma, che verrà pubblicato da Laterza nel 1956 (oggi si può trovare in libreria per Minimum Fax), diventa così un duro j’accuse sulle condizioni di lavoro dei minatori e segna uno spartiacque nella vita di Bianciardi.

Un romantico a Milano

Nello stesso anno Bianciardi, che nel frattempo è diventato marito e padre, taglia i ponti con la sua vecchia vita per trasferirsi nella metropoli del boom economico: Milano. Bianciardi ci arriva per lavorare nella grande macchina editoriale che tutto divora per pochi spicci e molta gloria. I rapporti con Feltrinelli, però, non vanno lisci: Bianciardi è tormentato, vive in modo sregolato ed è insofferente alla vita d’ufficio. Viene messo velocemente alla porta, lavorerà da casa, come traduttore, in un crescendo di ansia per i guadagni sempre risibili e i tormenti interiori. Non è da solo ad affrontare gli affanni quotidiani: con lui c’è Maria, amante e amore del resto della sua vita, conosciuta un anno prima del disastro di Ribolla. È una donna emancipata e forte, comunista, che riesce a fronteggiare i suoi umori e ad aiutarlo nel lavoro. Il loro rapporto va avanti velatamente clandestino fino a quando la moglie Adria non arriva a Milano. La scena è quella di un dramma realista in bianco e nero, in cui la donna, con i figli – che ora sono due – al seguito, entra in casa e trova il marito emigrato che dorme con l’amante. Prevedibilmente, nonostante i tentativi di riparazione di Bianciardi, non finirà bene, e Adria tornerà da sola in Toscana.

Bianciardi, La vita agra

Se dopo la rottura con Adria la vita emotiva di Bianciardi si stabilizza, lo stesso non si può dire per quella sociale. La Milano dello scrittore toscano è quella frenetica degli anni Sessanta, dei lavori in corso a ogni ora del giorno e della notte, la capitale culturale del Corriere della Sera, delle case editrici, di Brera e degli artisti che fanno tardi nel dehors del bar Jamaica (di cui lo stesso Bianciardi è un assiduo frequentatore).

È a Milano che l’attività di traduttore di Bianciardi tocca alte vette: Miller, Faulkner, Steinbeck. E poi i libri autografi: romanzi come Il lavoro culturale (Feltrinelli, 1957), ispirato alla sua vita in Toscana, e soprattutto La vita agra, del 1962 (Rizzoli), che gli porta un inaspettato successo e ulteriori problemi. Nel romanzo, in cui il protagonista arriva a Milano con furore bombardiere per far saltare “il torracchione” della Montecatini, responsabile dell’incidente alla miniera di Ribolla (il palazzo dovrebbe essere quello che ancora si trova all’angolo tra via della Moscova e via Turati), e finisce ad arrancare dietro alle scadenze editoriali. Il parallelismo con la vita dell’autore è evidente, ma l’autobiografismo non va mai a discapito di una ricerca linguistica esuberante. In generale, in ambito lavorativo Bianciardi sembra avere due anime: quella dell’intellettuale tutto d’un pezzo, critico degli ambienti culturali in cui pure si muove, e quello del giornalista dalle venature pop.

Luciano Bianciardi: fine agra di un anarchico

La fama che arriva con La vita agra (il film omonimo diretto da Lizzani uscirà nel ’64) aumenta in Bianciardi la necessità di allontanarsi dal mondo. Il circo promozionale e le dinamiche capitalistiche della diffusione della cultura alimentano la spirale di autodistruzione in cui già l’autore è incanalato. A peggiorare le cose è anche il rapporto con Maria, con cui ha anche avuto un figlio. La donna, infatti, non si riconosce nel ritratto che Luciano Bianciardi fa di lei nel romanzo (lì si chiama Anna) e la relazione tra i due si logora. Lei parte, poi torna, prende una casa a Rapallo, in Liguria, dove Bianciardi si trasferisce dal 1964, ma sulla costa il suo umore peggiora. Nel tormento non rinuncia alla sua vena polemica e politica: dopo un viaggio in Palestina decide di farsi ritrarre con una benda sull’occhio (come il generale Moshe Dayan) per manifestare il suo dissenso nei confronti della politica israeliana.

Il saggiatore, Il cattivo profeta

Maria, preoccupata per le condizioni sempre peggiori di Bianciardi, lo riporta a Milano, da dove però lei se ne andrà con il figlio. Dopo la pubblicazione del suo ultimo romanzo, Aprire il fuoco (Rizzoli 1969), Bianciardi è ormai solo, consumato dall’alcol al punto da non riuscire più a scrivere. Aprire il fuoco, un’ucronia in cui si mescolano piani temporali e di realtà diversi, è dedicato alla grande passione che lo anima da una vita, il risorgimento: così la chiusura della sua attività letteraria appare, fatalmente e casualmente, la chiusura ordinata di un cerchio in una vita di disordine. Quando muore, due anni dopo, il 14 novembre del 1971, non ha ancora compiuto quarantanove anni.

Snobbato da una certa critica nonostante le tante e varie pubblicazioni, e adorato da una cricca di fedeli lettori, Luciano Bianciardi torna nel dibattito culturale qualche decennio dopo, nel 1993, quando Pino Corrias pubblica con Feltrinelli la sua biografia: Vita agra di un anarchico. L’interesse post-mortem sull’opera di Bianciardi, per fortuna, non si arresta, e a oggi i lettori possono avere a disposizione diverse ripubblicazioni della sua opera (oltre a I minatori della Maremma, Minimum Fax ha fatto uscire anche Antistoria del Risorgimento. Daghela avanti un passo!) e, in particolare, due mastodontiche raccolte. Parliamo de L’antimeridiano della compianta ISBN edizioni, uscito in aperta polemica con l’assenza di Bianciardi dai Meridiani Mondadori e ormai fuori catalogo, e de Il cattivo profeta, uscito per il Saggiatore nel 2018, con l’opera omnia dell’autore tranne l’attività giornalistica. Forse Bianciardi non avrebbe apprezzato tutta questa attenzione, ma sicuramente avere un “antimeridiano” tutto per sé lo avrebbe fatto sogghignare sotto la benda da pirata.

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