Nel loro nuovo volume a quattro mani, intitolato “Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo”, Andrea Colamedici e Maura Gancitano (ideatori del progetto Tlon) ci spingono a riflettere sulle origini e gli sviluppi del concetto di lavoro, ribaltando la prospettiva sulle retoriche del privilegio, del merito e dell’amore a tutti i costi per la propria professione – Su ilLibraio.it un estratto

Efficienti, dinamici, creativi: sono così tanti professionisti di oggi. Sì, ma anche (spesso), sovraccarichi, avviliti, depressi. Stanchissimi. Pieni di lavoro. Divisi fra call, impegni familiari e pubbliche relazioni, la luce blu degli smartphone che ci illumina il viso, la notte. Oppressi dal lavoro ma, al tempo stesso, in molti casi del lavoro innamorati, “rapiti”, vittime di una sorta di “sindrome di Stoccolma aziendale”.

Perché, per molte persone, oggi il lavoro è tutto e tutto è lavoro. Eppure, mai come in questa fase storica, la sensazione è che questo lavoro in determinati momenti non basti. Mai come oggi, in un mondo post-pandemico in cui tante dinamiche e tanti equilibri sono cambiati, lavorare (in certi momenti e in certe situazioni) appare privo di senso.

Una domanda spettrale, allora, ha cominciato ad aggirarsi: ma chi me lo fa fare di continuare a credere che il lavoro dei sogni arriverà e non mi sembrerà nemmeno più di lavorare? E chi me lo fa fare di ritenere che non esista un’alternativa?

A riflettere sull’argomento, di cui sempre più spesso si parla sui media e sui social, nel loro nuovo libro a quattro mani, sono Maura Gancitano e Andrea Colamedici, filosofi, autori ed editori, che hanno fondato insieme il progetto di divulgazione culturale Tlon, per concentrarsi su tematiche sociali di cui parlano anche sui social e in diversi podcast ed eventi.

Il volume con cui ora tornano in libreria si intitola proprio Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo (HarperCollins Italia) e, attraverso esplorazioni storiche e ricognizioni del presente, spinge a riflettere sulle origini e gli sviluppi del concetto di lavoro, mettendone in luce i legami con ciò che abbiamo di più sacro, come la religione o la moralità.

Andrea Colamedici e Maura Gancitano

Andrea Colamedici e Maura Gancitano (foto di Claudio Sforza)

Così facendo, i due autori (che sono una coppia anche nella vita) ci invitano a ribaltare la prospettiva sulle retoriche del privilegio o del merito. E, soprattutto, ci spingono a immaginare una soluzione, un mondo in cui sia possibile cambiare. Una presa di coscienza per capire che – per quello che oggi l’abbiamo fatto diventare – il lavoro è una trappola alla quale dobbiamo a tutti i costi sottrarci, se possibile a passo di danza.

Perché forse non è vero che se amiamo il nostro lavoro non lavoreremo mai un giorno nella vita: potremmo essere solo finiti sotto l’effetto di un incantesimo, da cui però siamo ancora in tempo per riprenderci…

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La copertina del libro Ma chi me lo fa fare di Andrea Colamedici e Maura Gancitano

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto:

Se fai quello che ami, allora devi soffrire

[…] Come recita l’antico adagio: Se fai quello che ami, non lavorerai un giorno della tua vita. Antico fino a un certo punto, a dire il vero: Confucio, a cui viene solitamente attribuito, non l’ha mai pronunciato, e l’attestazione più recente risale al 1982.

Ma quante persone hanno davvero il privilegio di poter fare per lavoro esclusivamente quel che amano? Pochissime. E queste pochissime persone, al netto degli imprenditori digitali con segreti di Pulcinella, vengono usate (e spesso usano se stesse) per spiegare alla stragrande maggioranza restante che sì, è possibile trovare il lavoro dei sogni, basta impegnarsi al massimo e fare come hanno fatto loro. Cosa del tutto falsa, ma che tiene in piedi l’enorme mercato delle esche-promesse che abitiamo ogni giorno. Poter arrivare a fare un lavoro che si ami davvero è spesso utopia. Se poi lo desideriamo anche dignitoso e correttamente retribuito…

Ma la questione, comunque, non si esaurisce qui.

Il punto è che fare quello che ami non è affatto la panacea di tutti i mali. Anzi: in particolar modo negli ambienti creativi e culturali, l’idea di svolgere un buon lavoro è vista come una colpa da espiare nei confronti del resto della società che non ha avuto simile fortuna. E la si sconta, ad esempio, attraverso una mole disumana di ore che gli si dedica, attraverso il sorriso e la gratitudine obbligatorie, attraverso la rinuncia a tutele, protezioni e assistenze che invece andrebbero garantite a prescindere da quanto si adori la propria professione. Si finisce così con il pagare la penitenza di svolgere una buona mansione senza potersene lamentare, come un matrimonio combinato dalla società in cui si sposa il proprio lavoro finché morte non vi separi. Se è un buon lavoro, devi ritenerti fortunato. Ergo, devi scontare la pena della tua fortuna.

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La romanticizzazione del lavoro e la trappola della passione

Anche quando si ama un lavoro, poi, ci sono spesso fasi difficili, giorni in cui si deve lavorare più duramente, momenti in cui è necessario affrontare una bella dose di stress. Quando si ama un lavoro si può godere di maggiori soddisfazioni, ma è cruciale ricordare che anche un lavoro che si ama può essere faticoso e stressante. Che si può perfino arrivare a odiare un lavoro amato, o trovarsi a svolgere funzioni di quel lavoro che si detestano per innumerevoli ragioni (per mancanza di tempo o di energie, ad esempio).

Come ha scritto la sociologa Erin A. Cech, l’idea di amare il proprio lavoro si rivela molto spesso una trappola capitalista.¹ Il contraltare più diffuso al Lavora solo per guadagnare il più possibile, infatti, è proprio Lavora solo per seguire la tua passione; l’invito a svolgere un lavoro appagante è diventato un consiglio di carriera onnipresente su giornali, social, televisioni.

Il problema di questo invito risiede nel fatto che nessuno dovrebbe dipendere da una singola istituzione sociale per definire il proprio disegno di sé: l’idea di lavorare solo per seguire la passione spesso si basa sull’assunto che ogni individuo abbia una passione unica e specifica, il che può essere escludente e invalidante per le persone che non hanno una passione così definita o che hanno interessi e talenti multifocali. Oggi non possiamo chiedere al lavoro di offrire tutto il senso della vita. Non possiamo pretendere che definisca appieno la nostra identità, perché siamo complessi, mutevoli e abbiamo bisogno di strumenti molteplici per esprimere ciò che siamo.

Il sociologo Cal Newport sostiene che l’idea di seguire la passione nel lavoro spesso è fuorviante e che, al contrario, è più importante sviluppare le proprie competenze e diventare esperti nel proprio campo, per avere successo e soddisfazione lavorativa.² Secondo Newport, cercare di trovare un lavoro che corrisponda alla propria passione può essere frustrante, poiché spesso le nostre passioni cambiano nel tempo e non sempre sono facilmente trasformabili in lavori remunerativi.

Ma se non devo lavorare né soltanto per dovere né soltanto per piacere, come e perché devo lavorare?

Un altro dei classici discorsi motivazionali risuona invece in video dal titolo “Perché dovresti voler guadagnare di più?”, dove si importano slogan come Stop being poor, get rich!. Devi renderti conto di trovarti in un mondo dove i soldi ti risolvono problemi, velocizzano la burocrazia, ti permettono di viaggiare, di volare in prima classe, di anticipare i tempi, di avere applicazioni migliori, di avere telefoni migliori, di scattare foto migliori, immortalare momenti migliori. Ma perché portarti ancora appresso tutti questi retaggi della tua famiglia, dei genitori, della tua storia passata riguardo il denaro negativo che fa male?

Bisogna desiderare i soldi, ottenerli e non vergognarsi della propria ambizione. Una narrazione di questo tipo rende palese ciò che, al contrario, su social come Instagram è mostrato ma non esplicitato: i soldi sono belli e fanno la felicità, il successo è invidiabile, l’ostentazione è il sale della vita. A ben vedere, infatti, non c’è nessuna differenza ideologica tra chi vende metodi per diventare ricchi su YouTube e le/gli influencer fashion su Instagram. In entrambi i casi l’idea è quella di provocare invidia in chi guarda, veicolando il concetto che la felicità passi esclusivamente dal lusso, dal successo e dal potere. Su Instagram si può (e si deve, se si vuole funzionare) mostrare e ostentare la ricchezza e/o il potere, ma non lo si deve dire. Non bisogna parlare esplicitamente di soldi e potere: sarebbe volgare. Basta mostrarlo. Per citare al contrario la serie tv Boris 4, su Instagram lo famo, ma non lo dimo.

¹ Cech, Erin A., The Trouble with Passion. How Searching for Fulfillment at Work Fosters Inequality, University of California Press, Berkeley 2021.

² Newport, Cal, So Good They Can’t Ignore You. Why Skills Trump Passion in the Quest for Work You Love, Grand Central Publishing, New York 2012.

(continua in libreria…)

(c) 2023 HarperCollins Italia
(c) 2023 Maura Gancitano e Andrea Colamedici
Pubblicato in accordo con S&P Literary – Agenzia letteraria Sosia & Pistoia
Per gentile concessione.

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Fotografia header: Maura Gancitano e Andrea Colamedici (foto di Claudio Sforza)

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