Non c’è solo il Cammino di Santiago, che resta il più famoso. I Cammini d’Europa non conoscono declino e negli ultimi anni c’è stata una “rinascita” del fenomeno, che sta coinvolgendo anche l’Italia e gli italiani. Ma cosa spinge a mettersi in cammino? Ricerca interiore? Riflessione spirituale? Ribellione? Moda? Su ilLibraio.it un approfondimento sui viaggio a piedi, in cui non mancano spunti letterari

Santiago certo, la più famosa. Ma anche la Via Francigena, la Via Benedicti, la Via Sacra Longobardorum che da Moint-San Michel, in Francia, arrivava fino a Monte Sant’Angelo, sul Gargano, la Via del Gran San Bernardo e del Moncenisio… E l’itinerario laico, percorso anche quest’anno dallo scrittore Antonio Moresco, che dalla Risiera di San Sabba, Trieste, arriva fino a Sarajevo, epicentro della scintilla che scatenò la Prima Guerra Mondiale e città martire della guerra che ha insanguinato i Balcani negli anni Novanta.

I Cammini d’Europa non conoscono declino. Li popolano gente d’ogni tipo: il manager in carriera e lo studente squattrinato, il pellegrino e il semplice curioso, il colto e l’inclita, il credente e l’incredulo, lo sportivo e l’uomo in fuga da una quotidianità asfissiante e avara di soddisfazioni. Tutti, credenti o altro che si sia, a tu per tu da soli con la domanda che il Cristo pone ai suoi discepoli sulle rive del Giordano all’inizio della sua vita pubblica: “Che cosa cercate?” (Gv 1,28-39). Una domanda intima, scomoda, scrigno forse di un tesoro da far venire alla luce. E se il cammino servisse proprio a questo: a far lavorare, nel recesso interiore, quel punto di domanda che secondo un detto ebraico Dio creò in principio proprio per deporlo nel cuore dell’uomo?

Non si spiegherebbe altrimenti la longevità, o per meglio dire la rinascita, dei Cammini d’Europa. A Santiago di Compostela, per dare l’idea, nel 1985 arrivarono duemilacinquecento pellegrini, nell’ultimo anno sono stati duecentocinquantamila: in trent’anni il loro numero si è centuplicato. Tra loro, solo negli ultimi dieci anni, si contano oltre centodiecimila italiani. Il medico e autore di bestseller Jean Christophe Rufin lo ha raccontato nel recente Il cammino immortale – La strada per Santiago (Ponte alle grazie) evidenziando con ironia anche il tratto più abitudinario e superficiale dei “forzati” e dei turisti del pellegrinaggio verso il Santuario galiziano.


LEGGI ANCHE – Il cammino (immortale) di Santiago 

Il 2016 in Italia è stato proclamato Anno nazionale dei Cammini dal Ministero dei Beni culturali anche in omaggio a questo popolo numerosissimo e variegato che si mette in viaggio. Non di corsa – perché correre implica un voler trovare subito la risposta – ma per fermarsi a vivere bene le domande, o meglio la domanda di “senso”, parola che non a caso significa anche “direzione”.

Nel Medioevo, il pellegrino prima di partire doveva compiere la cerimonia della vestizione: indossava il mantello di panno ruvido, riceveva il cappello a tesa larga, prendeva in consegna la bisaccia e impugnava il “bordone”, un bastone alto quanto lui che lo avrebbe sorretto e protetto dai predoni. Andare a Santiago de Compostela, meta cult dall’XI secolo in poi, a Gerusalemme o a Roma significava uscire trasformato nel cuore e nell’immagine pubblica. Predisponeva all’esercizio delle virtù della saggezza, della pietas, della giustizia, purificava l’anima dalle colpe commesse, apriva alla contemplazione della bellezza lungo il cammino disseminato di sontuose abbazie, santuari, affreschi e croci costruiti da quei padri europei ante litteram che furono i monaci cluniancensi. E oggi? Al netto di un certo vezzo puramente turistico e modaiolo («lo fanno tutti, lo faccio anch’io») perché migliaia di persone si sobbarcano lo sforzo immane di percorrere ottocento chilometri a piedi, un milione di passi, un mese per strada con salite e discese e la notte a dormire con estranei in camerate affollate?

cammino santiago

Nessuna risposta definitiva è davvero possibile, ogni viandante ha una storia che è difficilmente incasellabile in qualche categoria particolare. Luigi Nacci in Viandanza (Laterza) evidenzia come le ragioni del cammino vadano cercate nella mente e nel cuore di chi lo intraprende. E il cuore, altrui ma anche il proprio, è la regione inaccessibile e off limits per definizione. Compiere il cammino perdendosi tra gli altipiani brulli e polverosi dell’altipiano iberico della Meseta o lungo i tratturi boscosi dell’Italia centrale o tra i sentieri della Normandia come pure del Gargano è, secondo Nacci, anche un atto intimo di ribellione nei confronti di una società che ha elevato l’utile a sua stella polare, che ha identificato l’economia con il business con il suo corollario di banche speculatrici, titoli finanziari tossici e persone ridotte in stato di povertà in nome del profitto.

Più di un voto al referendum, il cammino è (anche) una protesta contro l’Europa arida, spoglia di ideali, dove la solidarietà tra i popoli è venuta meno. Il viaggio a piedi aiuta a riscoprire una comunità cordiale, di aiuto reciproco, all’insegna dell’essenziale e del necessario che per i viandanti occupa l’angusto spazio di uno zaino. Apre a relazioni che non si esauriscono solo nella logica della convenienza perché quel poco che si possiede si condivide e le porte di ostelli e rifugi sono aperte per accogliere e non per respingere come succede oggi sui confini di molti paesi europei con i migranti in fuga dal Medio Oriente in fiamme.

Che cerchi Dio, se stesso o una maggiore autenticità di vita, l’homo viator, ieri come oggi, dovrà fare i conti con il disincanto crudele di Baudelaire che ne I fiori del male scrive: “Amara scienza, si ricava dal viaggio! Il mondo, piccolo, monotono, oggi come ieri e come domani e sempre, ci mostra l’immagine nostra: un’oasi d’orrore posta in mezzo a un deserto di tedio!”.  E dovrà, lungo il cammino, posare lo sguardo sull’inquietante iscrizione scolpita su una colonna all’ingresso del Duomo di Lucca: «Questo è il labirinto costruito da Dedalo di Creta dal quale nessuno entratovi poté uscire salvo Teseo grazie al filo di Arianna». Un monito potentissimo. Dal groviglio di contraddizioni dell’esistenza, del dolore, del male si salva solo chi porta con sé un filo: la compagnia di Dio. Basta?

E se il cammino fosse solo un vagabondare comodo nell’illusione di cancellare la noia e senza porsi le domande fondamentali come scrive Jack Kerouac nel romanzo-simbolo della beat-generation, On the Road? “Un tipo alto e dinoccolato”, scrive l’autore, “con un cappello a larghe tese fermò la sua macchina in contromano e attraversò verso di noi; aveva l’aria di uno sceriffo. Noi preparammo segretamente le nostre storie. Lui si avvicinò senza affrettarsi. ‘Andate da qualche parte di preciso, voi ragazzi, o viaggiate senza meta?’. Non capimmo la domanda, eppure era una domanda maledettamente chiara”.