“Ma il mondo, non era di tutti?” è un’antologia curata da Paolo Nori, che affronta il tema dei confini nel mondo contemporaneo, attraverso racconti di Violetta Bellocchio, Emmanuela Carbé, Francesca Genti, Carlo Lucarelli, Monica Massari, Giuseppe Palumbo, Antonio Pascale e Gipi

Ma il mondo, non era di tutti? (Marcos y Marcos) è un’antologia di racconti curata da Paolo Nori, il tema di fondo intorno a cui ogni racconto ruota, è quello dei confini. Un tema di attualità, per un’antologia voluta da arci Nazionale, composta da otto racconti rispettivamente di Violetta Bellocchio, Emmanuela Carbé, Francesca Genti, Carlo Lucarelli, Monica Massari, Giuseppe Palumbo, Antonio Pascale e Gipi.

La domanda fondamentale, che Paolo Nori sottolinea nell’introduzione, è: ha senso, oggi, in Italia, il primo articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, quello che afferma che “Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Sono tutti dotati di ragione e coscienza e devono agire gli uni con gli altri con uno spirito di fraternità”?

ma il mondo non era di tutti

Una meditazione sull’identità, l’appartenenza, i confini e l’essere straniero nel mondo di oggi, che Paolo Nori introduce con una riflessione sulla figura dello scrittore Georges Perec. Subito dopo la seconda guerra mondiale Perec era un bambino senza ricordi d’infanzia. Da adulto scriveva di sé: “Fino ai dodici anni, più o meno, la mia storia occupa qualche riga: ho perduto mio padre a quattro anni, mia madre a sei; ho passato la guerra in varie pensioni di Villard-de-Lans. Nel 1945, la sorella di mio padre e suo marito mi hanno adottato. Questa assenza di storia mi ha, a lungo, rassicurato: la sua secchezza oggettiva, la sua apparente evidenza, la sua innocenza mi proteggevano”.

Perec era nato in Francia, ma non si sentiva francese. “Ho un nome francese, Georges, un cognome francese o quasi: Perec che tutti scrivono Pérec o Perrec: il mio cognome non si scrive esattamente come si pronuncia. A questa contraddizione insignificante si associa il sentimento tenue, ma insistente, insidioso, ineluttabile, di essere in un certo modo straniero rispetto a qualcosa di me stesso, di essere ‘diverso’, ma non tanto diverso dagli ‘altri’ quanto diverso dai ‘miei’; non parlo la lingua che parlavano i miei genitori, non condivido nessuno dei ricordi che essi poterono avere”.

Perec ha potuto crescere in un mondo, l’Europa occidentale del dopoguerra, che l’ha protetto dalla sua solitudine e ha avuto interesse a tramandare la sua storia. Ma – chiede a sé e ai lettori Paolo Nori – il nostro mondo, oggi, è ancora in grado di proteggere qualcuno dalla sua solitudine? Gli interessa ancora tramandare le storie dei Perec di oggi?

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