Arriva nelle librerie italiane “Lo splendore del nero. Filosofia di un non-colore”, il nuovo saggio di Alain Badiou che prende le mosse da un ricordo d’infanzia per indagare il ruolo del colore nero nel nostro immaginario collettivo… – Su ilLibraio.it un capitolo del saggio dedicato all’analisi della sessualità

S’intitola Lo splendore del nero. Filosofia di un non-colore il nuovo saggio firmato Alain Badiou, in arrivo nelle librerie italiane per Ponte alle Grazie; filosofo francese contemporaneo, professore emerito presso la Scuola Normale Superiore de la rue d’Ulm, Badiou è stato definito da Salvoj Žižek “l’erede di Platone: Badiou è il più grande filosofo vivente”.

Quel gioco che fanno i bambini, quello in cui ci si muove a tentoni nell’oscurità, imparando a camminare nel buio della notte, diventa il pretesto per una trattazione filosofica sul ruolo del colore nero nel nostro immaginario collettivo: tra ricordi e riflessioni personali, l’autore di L’essere e l’evento (Melangolo, 1995) analizza la simbologia del colore nero, i suoi significati allegorici e filosofici, facendone, pagina dopo pagina, un colore tanto ambiguo quanto luminoso.

Dall’analisi dei significati letterari al racconto di ricordi personali, il nuovo saggio del filosofo francese attraversa la musica, la pittura, la politica e la metafisica. Ma anche il sesso: il ruolo del nero nella sessualità diventa in Badiou un’analisi del ruolo del sesso nella nostra società, dalla sua raffigurazione mediatica alla sua percezione ideologica. La riflessione, anche personale, finisce con l’indagare il significato ideologico della depilazione nel sesso, proprio in relazione al colore nero e all’oscurità, come una metafora dell’evoluzione che la sessualità, come concetto, ha subito negli ultimi decenni.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto del libro

Sessualità primitiva

Anticamente, ai tempi della mia adolescenza, di sesso non sapevamo granché. Era veramente, com’è stato a lungo sostenuto a proposito della sola sessualità femminile, e a volte dell’inconscio in persona, il «continente nero».

Di fatto, le nostre fonti in materia erano costituite da dubbie riviste comprate sottobanco e intitolate Brividi, oppure Estasi, oppure anche, in maniera più precisa e garantita dall’autorevolezza in ascesa della lingua inglese, Sexy Girls. Questi materiali, da noi consultati in piccoli gruppi ferventi, il più lontano possibile dalle varie autorità, genitoriali o scolari, ci presentavano soprattutto foto di donne più o meno spogliate, ovviamente in bianco e nero.

Oggi, con un minimo clic sulla tastiera di un computer i bambini possono scoprire una quantità astronomica di donne nude o pressoché nude, a colori e in movimento, archiviate secondo categorie mercantili rigide come quelle dei supermercati, dal banale sesso orale alle complicazioni più specializzate, e rubricate sotto nomi anglofoni come blow job, whipped ass, cuckold sex, o MMF – da intendersi, quest’ultimo, come trio composto da due rappresentanti del genere Maschile e da una di quello Femminile, e non da due Malandrini e un Furfante. Citiamo anche lezdom, che non riguarda un’invasione di «lucertole a domicilio», ma Lesbiche Dominatrici, esattamente come, in questo contesto, threesome non indica la troika che, in nome della bella Europa, decide delle disastrate finanze greche, ma qualsiasi attività sessuale svolta in tre e non in due, né tantomeno da soli. Tutto questo non lascia niente, assolutamente niente nell’ombra – se non forse l’amore, che è molto difficile ridurre allo statuto di prodotto di consumo su uno scaffale informatico.

Una volta, di tutti questi prodotti sessuali preconfezionati c’era penuria, e non eccedenza. Un’ulteriore ed essenziale complicazione veniva dal fatto che la censura era irremovibile riguardo a tre divieti. In primo luogo, lasciava circolare le riviste sospette ma solo sotto la rigida regola che non comparissero là dove giornali e riviste venivano venduti ufficialmente. Per ottenere queste succulente foto di sexy girls più o meno discinte, era quindi necessario possedere conoscenze, zelo, e nero e non pochi soldi. In secondo luogo, la nudità sulle foto era accettata però non poteva estendersi alle parti e alle materie considerate dalla suddetta censura come dotate di valore strategico: si potevano quindi vedere dei seni ma non i capezzoli. Per ultimo, in nessun caso, si dovevano vedere dei peli femminili, che fossero pubici o che fossero situati sotto le articolazioni delle braccia. Va da sé che il sesso maschile era assolutamente proscritto, in posizione eretta, ovviamente, ma anche quand’era rilassato o addirittura esanime.

Da questi divieti derivavano parecchie conseguenze di grande portata, che riguardavano tutte il colore nero.

Innanzitutto, il privilegio accordato dalle nostre riviste ai nudi femminili visti da tergo. In effetti, da questa prospettiva, non c’è niente di vietato, non ci sono né capezzoli né peli. Né sessi maschili, salvo mostruose quanto assai improbabili combinazioni. Il che lasciava nell’ombra il più impenetrabile enigma riguardo al sesso femminile, la tanto desiderata risposta alla domanda: «Che cos’hanno sotto la gonna, le ragazze?» In definitiva, anche la risposta che non avessero proprio niente era resa impossibile dal prevalere del loro fondoschiena, il quale proponeva senza dubbio alcune varianti rispetto a quello che noi conoscevamo, quello dei ragazzi, nessuna però essenziale. Così, senza volerlo, continuando a tenere avvolto nell’oscurità il punto chiave del continente nero, la censura suggeriva la sodomia come pratica assolutamente naturale.

In secondo luogo, quando le riviste concedevano un nudo femminile visto di fronte e privo di mutandine, la censura obbligava che, là dove si trovava il triangolo villoso, necessariamente nero a causa del bianco e nero della foto, l’immagine di detto triangolo venisse sfumata. Al nero reale si sostituiva così una zona biancastra o grigio pallido, una specie di nuvola che, come attirata dallo spazio tra le gambe delle signore, andava malauguratamente a ristagnarvi proprio nell’istante in cui la foto veniva scattata. Ecco, quindi, che il bianco eliminava il nero e, assieme a questo, eliminava ancora una volta qualunque possibilità di accedere al mistero femminile. E tanto più strano era quel bianco, quanto più aleggiava anche sopra le ascelle delle belle nudità, quasi fosse un morbido pacchetto di cotone idrofilo. La cosa portava la confusione al suo culmine: qual era dunque questo mistero che le donne nascondevano sotto le braccia? Va inoltre notato che l’assenza di mutandine era rara, di modo che, pagina dopo pagina, il nero del triangolo pubico si faceva grandemente desiderare per essere poi alla fine mostrato soltanto abolito. Mi ricordo, su una di quelle riviste letta in un angolo buio della palestra – un luogo appropriato! –, l’epico racconto delle reticenze di una signora che, vinta poco a poco dall’amore, si lasciava spogliare dall’uomo, con tanto di foto a testimonianza. Lo stile del racconto era sobrio ma elevato, tanto che al momento in cui la signora abbandonava gli ultimi orpelli, il testo, usando un’espressione che mi è rimasta impressa nella memoria, parlava delle «mutandine, ultimo bastione del pudore che combatte». In ogni caso, caduto anche questo bastione, sopra il nero del sesso arrivava subito la nuvola biancastra della censura che rendeva incomprensibile il fatto che ci fossero voluti tanto tempo e tanta insistenza per svelare un nuovo e definitivo ostacolo al nostro desiderio di conoscenza.

Oggi, quando ormai la rasatura integrale della zona pubica è diventata un fatto normale, è la concreta assenza del nero che, riducendo il sesso alla sua apparenza infantile, lascia intatto l’enigma della differenza sessuale. Così, tra il nero sbiancato degli anni Cinquanta e il nero rasato di oggi, la foto del nudo femminile continua a rappresentare l’organizzazione di una delusione attraverso cui persiste l’idea che la sessualità femminile si trovi al cuore di un continente nero.

È solo quando il nero è velato di bianco, quando viene a mancare là dove si dovrebbe trovare, che noi ne desideriamo la realtà. Il nero è per eccellenza il colore incolore dei feticci.

(Continua in libreria…)

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