“Vivere con i libri. Un’elegia e dieci digressioni” di Alberto Manguel nasce dall’evento che più d’ogni altro può mettere in crisi un bibliofilo: un trasloco. Inscatolare, catalogare, spedire significa perdere, per un tempo indeterminato, tutto ciò che ci è stato indispensabile, tutto ciò che costituiva la clinica dell’anima. Qualcosa del genere accade anche allo scrittore: si deve confrontare con la distruzione, pur entrando in possesso da quel momento di una biblioteca fatta di ricordi, di memoria, dei nuovi libri in cui si imbatte che rievocano i vecchi, li completano, li pongono sotto diverse prospettive… – Su ilLibraio.it l’approfondimento di Mario Baudino che analizza l’essenza delle biblioteche, citando anche il saggio di Stuart Kells, “La Biblioteca. Un catalogo di meraviglie”

“La scoperta dell’arte di leggere – scrive Alberto Manguel – è un evento intimo, oscuro, segreto, quasi impossibile da spiegare”. Vero è che tuttavia, col passare del tempo, può portare con sé, oltre a una notevole felicità, una serie di conseguenze complesse, fra estasi e tragedia: perché l’arte di leggere ha a che fare strettamente con le biblioteche, e le biblioteche sono universi imprevedibili, ecosistemi del bibliofilo, che incidono fortemente sul nostro stile di vita. Lo scrittore argentino, grande cultore dei libri, e da ragazzo “lettore ad alta voce” per il grande cieco di Buenos Aires, ovvero Jorge Luis Borges, dedica a questo tema antico il suo Vivere con i libri. Un’elegia e dieci digressioni (Einaudi), nato dall’evento che più d’ogni altro può mettere in crisi un bibliofilo: un trasloco. Dovendo lasciare la casa che aveva a lungo abitato in Francia, “un’antica canonica in pietra sud della valle della Loira, in una borgata tranquilla di meno di dieci case” si trova a inscatolare, smarrito ma con l’aiuto degli amici, l’enorme quantità di libri che teneva in una torre, nella quale trascorreva giornate felici immerso nella lettura.

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Inscatolare, catalogare, spedire significa perdere, per un tempo indeterminato, tutto ciò che ci è stato indispensabile, tutto ciò che costituiva la clinica dell’anima, come scrive Manguel citando un passo di Diodoro Siculo che “nel primo secolo a.e.v.” (e si noti lo squisito vezzo ebraico di non a scrivere a.C. ma preferire l’acronimo di “era volgare”) vide questa iscrizione sul frontone di un’antica biblioteca ormai diruta. Qualcosa del genere, e ha ovviamente a che fare con la poesia delle rovine, accade anche alla sua, se pure sa di poterla recuperare un giorno: si deve confrontare con la distruzione, pur entrando in possesso da quel momento di una biblioteca fatta di ricordi, di memoria, dei nuovi libri in cui si imbatte che rievocano i vecchi, li completano, li pongono sotto diverse prospettive. 

L’imperativo, molto popolare grazie a una serie Netflix di Marie Kondo (basata sul suo bestseller Il magico potere del riordino, Vallardi), di tagliare spietatamente, riducendo a 30 volumi gli ospiti dei nostri scaffali casalinghi, ovviamente non lo riguarda. E in questo ambito non ha diritto di cittadinanza se non a livello di boutade, al più di provocazione. Nessuno bibliofilo lo prenderebbe sul serio, se non come paradossale invito a ripetere l’Auto da fé del professor Kien nel romanzo di Elias Canetti, che immola se stesso e la propria biblioteca quando scopre di non poterla più difendere dai furti della domestica (e dai furti della vita: quando vede come il suo progetto di eternità sia destinato allo scacco). La biblioteca è una nostra creazione, misteriosissima, sfiora l’impossibile: è un sogno di eternità che si misura con l’entropia.

Volendo, come tutta l’arte, è apparentabile al Golem, la mitica creatura del rabbino di Praga: “Le nostre creazioni – scrive  Manguel-, i nostri Golem o le nostre biblioteche, sono nel migliore dei casi oggetti che danno l’impressione di essere copie approssimative della nostra vaga intuizione della realtà, a sua volta imperfetta imitazione di un archetipo ineffabili”. Sono un “imperfetto sogno di ordine”.  Migrano, vengono distrutte, si disperdono e talvolta, incredibilmente, rinascono, come accade, nell’ambito di una memoria tra il filologico e il fantastico, a quella che in circostanze a noi poco chiare bruciò o comunque venne nel tempo distrutta ad Alessandria. Collezionare i volumi, dar loro vita in quanto cose inanimate, contiene non tanto il rischio quanto l’oscura consapevolezza che si perderanno; perderli può essere un modo per avvicinarci ulteriormente a essi, o forse per sperimentare il limite della condizione umana.

Il libro di Manguel è anche, per certi aspetti, un preghiera. Il (provvisorio) addio alla biblioteca non è quello provocatorio di un D’Annunzio che nel Canto Novo, in nome del sole di maggio, lancia un grido come di liberazione (“Addio, di libri varie lunghissime/ coorti! addio, gentile esercito/ di libri ne l’algide notti/ popolanti di larve la stanza!”). Il gentile esercito non ci abbandona mai veramente. Ed è un esercito da cui molto si può capire, e molto rimane avvolto nell’enigma. Le collezioni degli scrittori – ma il discorso vale per tutti i lettori – sono imprevedibili, è difficile individuarne la chiave, ovvero comprenderne l’ordine. Ed è altrettanto difficile, va da sé, sottrarsi a veri e propri episodi di bizzarria. Stuart Kells, in La Biblioteca. Un catalogo di meraviglie (Mondadori) propone una fitta aneddotica al proposito. Per esempio, racconta di un politico e bibliofilo belga del XVII secolo, Karel Van Hulthem, che non solo riempì due case di libri, ma non permetteva di accendere il fuoco per scaldarle, perché sarebbe stato troppo pericoloso. Nelle freddi notti invernali cercava un po’ di tepore accatastando pagine sul letto, soprattutto per coprirsi i piedi. 

Stuart Kells, La Biblioteca. Un catalogo di meraviglie

Niente del genere è mai accaduto a Manguel, che racconta semmai di come le sue giornate di lettura siano state per un lungo periodo felicissime e intense, nel silenzio della campagna francese, dall’alto della sua torre. Ma il tepore della notte, quello lo hanno cercato tutti e trovato in molti. Aldo Manuzio volle accanto alla bara tutti i meravigliosi libri che aveva stampato, e così accadde cinque secoli dopo per quelli che aveva scritto e letto Carlo Fruttero, prima che venisse sepolto nel piccolo cimitero di Castiglione della Pescaia a pochi metri dall’amico Italo Calvino. Anche Oscar Wilde, quando morì a Parigi in un misero albergo, lo fece in una stanza zeppe di volumi.

La sua biblioteca, vastissima e caotica, che aveva ospitato una varietà notevole e indistricabile di titoli, dai libri di pesca ai romanzi gotici, dalle edizioni di lusso ai classici greci e latini, dai romanzi francesi a un’infinità di edizioni di Shakespeare, era stata dispersa durante i processi per oscenità intentati allo scrittore, e questo fu l’aspetto forse più doloroso della sua tragedia esistenziale. In carcere chiedeva libri. Nei giorni della libertà, della povertà e dell’esilio, ne raccolse quanti più poteva. Per sopravvivere, e prepararsi all’addio. 

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