In “Adesso che sei qui” Mariapia Veladiano racconta di un affetto che travalica gli ostacoli della malattia: l’Alzheimer non snatura il legame fortissimo tra la protagonista e zia Camilla, una madre putativa, che l’ha sempre amata – L’approfondimento

Accudimento: una parola che suscita un sorriso di tenerezza, pensando al legame tra genitori e figli; una parola che turba, se invece la associamo alla mancanza di autonomia di una persona anziana. Eppure la presenza di una malattia devastante come l’Alzheimer non è sempre indice di disgregazione dei rapporti; può segnare, piuttosto, una trasformazione, un accomodamento delle proprie posizioni, pur di mantenere inalterata la comunicazione.

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Mariapia Veladiano in Adesso che sei qui (edito da Guanda) narra una storia familiare delicatissima, incentrata sull’amore di una nipote per la zia malata, che le ha fatto da madre fin dalla sua più tenera infanzia, rapporto che possiamo riassumere con questo passaggio emblematico: “Non era mia madre ma io ero sua figlia” (p. 41).

Andreina, ennesima figlia femmina da sfamare, era stata infatti affidata a zia Camilla e a zio Guidangelo, una coppia senza figli, che non ha mai fatto mancare nulla alla nipote. E la gratitudine non è mera conseguenza di tanto bene ricevuto, ma semplice istinto, corroborato dall’affetto. Infatti, quando zia Camilla è stata trovata in piazza spaesata e vestita con un cappotto in piena estate, non è stato più possibile negare l’evidenza: un problema serio c’è, “il tedesco” (l’Alzheimer) è arrivato e Andreina decide di trasferirsi da subito a casa della zia, mettendo in pausa la sua stessa vita. Una volta lì, appaiono i segni di quella malattia che a lungo è stata nascosta: “ora tutto era confuso e corrotto” è una frase che leggiamo a pagina 19, in riferimento allo stato del frigorifero, ma potremmo ampliare tale osservazione all’intera situazione in cui Andreina si ritrova.

Passato e presente si mescolano inesorabilmente, ed è il netto contrasto con i ricordi a generare uno stridio doloroso. Tornano i dettagli della storia d’amore tra zia Camilla e zio Guidangelo, accanto a piccoli grandi gesti di affetto e generosità della zia, alle giornate trascorse all’aperto in mezzo alle galline, con il cane Pedro. Rintoccano frasi che sono sempre appartenute al lessico familiare di casa, da stralci di dialetto trentino alla più commovente “ti voglio bene e ti porto nel mio cuore”, con cui zia Camilla ha sempre cullato Andreina, da piccola come da adulta. Ecco perché davanti all’incognita della malattia mentale, che promette solo declino, Andreina è inizialmente spaesata.

Tuttavia, un aiuto è fondamentale: dapprima è Merhawit, giovane algerina dal passato difficile, ad affiancare zia Camilla insieme ad Andreina, ma poi arriveranno altre ragazze, tutte con trascorsi di sacrifici e rinunce, trascorsi che non si possono disgiungere dal presente. Anzi, è proprio quel vissuto a rendere speciale e attento l’approccio alla malattia: Andreina stessa, grazie alla presenza di Merhawit prima, di Naima e delle tre ragazze del centro dell’Alzheimer poi, scopre un nuovo modo per stare accanto a zia Camilla. Le difficoltà esistono, ma questo non è un romanzo che affonda le radici nella sofferenza; piuttosto, propone una storia di serenità – per quanto non si possa mai giungere alla spensieratezza – e di straordinario affetto.

Zia Camilla non viene infatti snaturata dalla malattia; perde ricordi, ma non smette di essere chi è sempre stata: ad esempio, l’empatia e il suo desiderio di aiutare gli altri la porteranno a ospitare in casa Naima e i suoi due figli. E così ad Andreina non mancheranno nuove esperienze da trasformare in ricordi: pomeriggi a giocare a carte con zia Camilla, insieme a questa piccola comunità di donne che sembrano amare la reciproca compagnia, e non dover solo badare alla malata. Certamente ci sono momenti di stanchezza – specialmente legati ai primi tempi, quando Andreina fatica a delegare e si trova a dormire male e poi a dosare con difficoltà le energie per la sua vita di moglie e il suo lavoro di insegnante -, ma la forza di volontà e il tempo aiutano a costruire “un modo di stare con la zia. Non c’era un piano, si è costruito poco alla volta” (p. 198). E, straordinariamente, si arriva alla conclusione che “comunque c’è una vita possibile per chi è malato, bella e piena, anche se diversa” (p. 199).

Tra Leitmotiv e battute che si avvicendano ora come gioco familiare, ora come effetto della malattia, entriamo nel mondo di zia Camilla e di Andreina con un crescente trasporto emotivo; complice la sobria asciuttezza stilistica, che rende le frasi spesso icastiche e memorabili. Lo stesso vale per i singoli episodi, che talvolta sbocciano in momenti di “piccola perfezione di un mondo che viene riparato” (p. 211).

Fotografia header: Sonia Gastaldi

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