“Quando qualcuno mi dice che i litigi, le intimidazioni, gli insulti e gli episodi di bullismo tra adolescenti sono nati con i social network mi viene da storcere il naso…”. Dopo i recenti, tragici fatti di cronaca, su ilLibraio.it la scrittrice Valentina D’Urbano, che nei suoi libri racconta senza censure i problemi e i sogni dei ragazzi, interviene per chiarire: “A quindici, sedici, diciassette anni, la vita vera non esiste finché non ricevi una denuncia o finché non arriva la polizia a casa. E quindi è tutto lecito”. Allo stesso tempo, però, “nascondersi dietro a un pc e divertirsi a far soffrire gli altri non è fico, non ci fa più forti”

di Valentina D’Urbano *

Quando qualcuno mi dice che i litigi, le intimidazioni, gli insulti e gli episodi di bullismo tra gli adolescenti sono nati con i social network mi viene un po’ da storcere il naso per l’ingenuità dell’affermazione.

Nei miei romanzi, ambientati sempre prima del Duemila, quando non esistevano né Internet né cellulari, di episodi di violenza fisica e verbale ce ne sono a bizzeffe. Gente poco raccomandabile che prende a cazzotti qualsiasi cosa si muova, gente che vorrebbe sparare a qualcuno e poi lo fa davvero, gente che si ammazza, gente che urla e grida, parolacce, sangue, vomito, rumore di spari, cicatrici antiche e nuove ferite aperte.

Insomma, sono una che parla d’amore e di rapporti familiari in maniera abbastanza asciutta. Mi piacciono i personaggi coraggiosi, avventati e aggressivi, quelli che se hanno qualcosa da dirti o se devono vendicare un torto vengono a cercarti, non si nascondono dietro a un nickname o a un profilo fasullo (e neanche potrebbero visto che vivono negli anni Novanta).

Mi piace metterci la faccia e mi piace che ce la mettano anche i miei personaggi, per questo non amo litigare sui social e non mi interessa fomentare polemiche per acchiappare qualche like, un po’ perché è un divertimento cretino per gente che non potrebbe attirare attenzione in nessun altro modo, un po’ perché se non guardo in faccia la persona con cui sto parlando non riesco a spiegarmi appieno, perché la comunicazione non è fatta solo di voce e parole, ma anche di gesti.

Tollero i comportamenti violenti solo nelle storie inventate che raccontano di ambienti difficili, ma non posso far finta che non esistano nel mondo reale.

Sono stata adolescente nei primi anni Duemila. Pochi miei coetanei avevano il computer, e Internet era una specie di leggenda metropolitana. Avevamo i cellulari, sì, ma non facevano foto né video, e il mio primo telefono, un mattone blu della Motorola, poteva inviare messaggi ma non si collegava alla rubrica, quindi dovevo prima scrivere il numero su carta e poi ricopiarlo sul telefono. Insomma, era abbastanza difficile e macchinoso insultare qualcuno da dietro uno schermo, o litigare senza metterci la faccia.

Eppure quel tipo di insulto, l’intimidazione, il pettegolezzo virale che scatena episodi di bullismo, c’è sempre stato. Più lento, forse meno visibile, ma c’è sempre stato. A quindici anni, nel quartiere popolare in cui abitavo e a cui poi mi sono ispirata per scrivere alcuni dei miei libri, dovevi fare attenzione alle persone con cui stavi, a come ti comportavi, ai ragazzi che ti piacevano. Una mossa sbagliata, una manifestazione di incertezza e venivi subito presa di mira. Vinceva chi faceva la voce grossa, chi prometteva botte e mazzate, chi insultava l’altro o chi faceva gli scherzi più stronzi. E non era così perché abitavamo alle case popolari. Cose del genere succedevano ovunque, magari in modo diverso.

Mi sembra che sia la stessa identica cosa adesso. Il tipo di violenza non è più o meno giustificabile: si è semplicemente spostato su un altro piano. È diventato alla portata di tutti. Ed è questo che ci infastidisce.

Se prima le violenze avvenute lontano da noi non ci interessavano e non potevamo conoscerle, adesso diventano argomento dilagante ed è difficile non guardare, difficile non esprimere un’opinione. L’insulto su Facebook, la foto privata esposta al pubblico ludibrio, il video hot che messo in rete ti rovina la vita equivalgono allo schiaffo, alla rissa, al pestaggio, forse sono peggio. Aprire una pagina su Internet per sbeffeggiare e umiliare qualcuno non è meno grave che picchiarlo e mandarlo all’ospedale.

Siamo responsabili di quello che facciamo anche nel virtuale, e le azioni che portiamo avanti sui social network hanno conseguenze nella vita vera.

Ma a quindici, sedici, diciassette anni, la vita vera non esiste finché non ricevi una denuncia o finché non arriva la polizia a casa. E quindi è tutto lecito: denigrare una compagna di scuola fino a spingerla al suicidio, e continuare anche dopo la sua morte perché non ci si è resi conto della gravità del fatto; oppure filmare un’amica ubriaca e priva di sensi mentre viene abusata e pensare che sia una cosa divertente, perché è facile smarrirsi e non riconoscere il confine tra le cose divertenti e quelle umilianti, tra l’aneddoto e la violenza vera. E la persecuzione non è mai colpa della vittima: semmai sono i “carnefici” ad avere qualche problema serio, a dover essere educati alla sensibilità e al confronto sano.

Nascondersi dietro a un pc e divertirsi a far soffrire gli altri non è fico, non ci fa più forti.

Semmai ci rende bestiali e vigliacchi.  Credo che basterebbe parlarne, progettare uno scambio virtuale di ruoli, o semplicemente riflettere e chiedersi: “Se questa persona che sto attaccando fosse qui davanti a me e se tutti ci stessero guardando, compresi i nostri genitori, gli direi la stessa cosa che sto scrivendo ora?”.

Quale sarebbe poi la risposta?

L’AUTRICE – Valentina D’Urbano * è nata nel 1985 a Roma, dove vive e lavora come illustratrice per l’infanzia. Il suo romanzo d’esordio, Il rumore dei tuoi passi, è uscito nel 2012 presso Longanesi conquistando un pubblico sempre più numeroso e affezionato.

Il suo nuovo libro è Non aspettare la notte.


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