“Dobbiamo prendere atto che la decisione di muoversi, spostarsi – azione considerata naturale e normale solo quando riguarda i nostri concittadini, viene vista quasi come una pretesa, se non un affronto, quando riguarda popolazioni di altre culture – implica, in alcuni contesti, un azzardo, un rischio: si può vivere o morire”. Francesco Staffa, antropologo, tiflodidatta e insegnante, è al debutto nel romanzo con “Akuaba”, tra noir e cronaca. Su ilLibraio.it racconta com’è nata l’esigenza di raccontare questa storia, che ci porta in Nigeria, e com’è cominciato il suo interesse per l’Africa

«Forse un giorno avrà la mente libera. Pacificata. Si sarà scrollata di dosso la colpa. Quando le onde e il cielo stellato inghiottiranno la casa e la sabbia sottile si stenderà paziente a coprire ogni cosa. Quando solo il lamento incessante dei gabbiani echeggerà sopra gli altri suoni. Forse quel giorno, anche il ricordo si estinguerà e il rimorso cesserà di bruciare.»

Ho avuto coscienza dell’Africa a partire dalle carte geografiche che campeggiavano sui muri delle aule dove ho trascorso la mia infanzia. Contorni scuri che emergevano su uno sfondo azzurro, reticolato da latitudini e longitudini. L’Africa, più familiare degli altri continenti, solo perché immediatamente situata sotto l’Europa, ovvero ciò che ci hanno insegnato a considerare il centro del mondo, metro da cui misurare la distanza con le altre terre. Fra le due, il Mediterraneo a solcare un confine netto, quindi i popoli vicini, quelli dei libri delle elementari, che allora sembravano comunque distanti, incuneati in un limbo storico che li rendeva quasi eterei.

Poi, un altro confine netto: il deserto, una macchia gialla sulla cartina. E sotto il continente nero con i suoi popoli lontani. Un continente sconosciuto, estraneo, esotico, altro. Nero per il colore della pelle dei suoi abitanti, nero per la fitta vegetazione, nero per l’ignoto, nero per l’oscurità dei rituali che vi si praticavano. Scenario di tutto ciò che la civilissima Europa aveva abbandonato ormai da tempo. Luogo letterario dove rappresentare una discesa agli inferi, disseminata da teste mozzate, macabre danze, corpi deturpati. Culla dell’antropopoiesi, esempio eccellente dei primordiali bisogni umani, ritratto di un’umanità primitiva, infantile, barbarica. O almeno, così è stato dipinto per lunghi secoli. Poi meta di conquista, luogo di sfruttamento: umano, delle risorse e culturale. Bacino per acquisire finanche ispirazione artistica. E, infine, luogo di radici, dove ricercare la propria identità perduta.

In quella distesa, poi, un paese come la Nigeria, tristemente noto per un paesaggio veicolato dagli schermi televisivi: dettagli ricercati, sempre più morbosi, sequenze maniacali inchiodate sui ventri gonfi, sui corpicini esili, sui piccoli volti dagli occhi grandi, violati da mosche e insetti. E intorno, miseria, terra arida, capanne.

Così la guerra del Biafra era entrata nel mio immaginario. Primo esempio di spettacolarizzazione del dolore.

A lungo ho riflettuto sul paradosso che quei fotogrammi avevano creato in me e forse in molti miei simili. Un’eutanasia dei sentimenti. Una viscerale, anestetica normalizzazione della tragedia. Riconosciuta, ormai, come consueta e per questo non più traumatica. “Perché il Grande Organizzatore, nel suo smanioso progetto di continuità e moltiplicazione, ha addestrato gli organi umani a sentire il dolore, a fuggirlo e a cercarne rimedio […] Dietro il bisogno dell’anestesia c’è l’ubbidienza al progetto della specie, che è di continuare a esistere, anche se non si sa perché” (Patrizia Cavalli, Con passi giapponesi, Einaudi).

Allo stesso modo, spesso, si vivono i luoghi come Moria, in Grecia, dal nome letterariamente tenebroso e dal significato semantico altrettanto oscuro, morìa, dove vengono accatastati esseri umani in un oblio senza tempo. Si rimane anestetizzati di fronte a quell’umanità transfuga: i dannati della terra, contraltare per i beati. Una moltitudine senza volto e senza nome, quindi priva di storia.

Akuaba cerca di superare quest’eutanasia dei sentimenti, facendo uscire le vicende dei suoi personaggi dal diacronico corso della Storia per entrare nella sincronia del vissuto e del quotidiano, divenendo frecce degne di colpire e di ferire.

A tal fine ho scelto un palcoscenico narrativo distante nel tempo e nello spazio. Una lente attraverso cui guardare all’esodo di persone costrette a fuggire da un giorno all’altro e al privilegio di essere bianchi, occidentali, benestanti. Un filtro attraverso cui scrollarsi di dosso l’ipocrisia, la paura, la propaganda e le viscerali emozioni che la narrazione dialogica quotidiana ci impongono. Uno specchio per osservare il riflesso di quanto stiamo vivendo e ripensare alle categorie su cui abbiamo costruito la nostra weltanschauung, sia rispetto a noi stessi che all’altro da sé.

Quanto siamo disposti a pagare per assecondare le nostre passioni? Questa è la domanda principale che Akuaba pone. E quanto la nostra condizione, il nostro status incidono sulla percezione del prezzo da pagare? Sul suo peso?

Akuaba è la storia vivida, cruda e appassionata di una migrazione sofferta e di un neocolonialismo impietoso, dove la Storia si intreccia inestricabilmente con i desideri e le ambizioni di chi, per assecondare i propri voleri, è disposto a perdere l’innocenza, a rinunciare alla propria anima.

Akuaba è un dardo avvelenato lanciato per trafiggere e ledere le certezze che abbiamo costruito per sentirci rassicurati nel nostro impianto consolatorio.

Come ci saremmo comportati se ci fossimo trovati al posto dei protagonisti del romanzo? Senza vergogna e senza falsi moralismi possiamo solo ammettere di essere fortunati a non aver dovuto compiere le scelte di Ada, Guido, Fabiënne e Franco, né quelle di Amma. E dobbiamo prendere atto che la decisione di muoversi, spostarsi – azione considerata naturale e normale solo quando riguarda i nostri concittadini, viene vista quasi come una pretesa, se non un affronto, quando riguarda popolazioni di altre culture – implica, in alcuni contesti, un azzardo, un rischio: si può vivere o morire. E quella macchia cobalto impressa sulla cartina a delimitare i continenti può assumere le sembianze di una tomba liquida o di una placenta da cui rinascere, dopo aver abbandonato le macerie di un passato doloroso e iniquo.

AKUABA

L’AUTORE E IL LIBRO – Francesco Staffa, antropologo, ha collaborato con diversi musei etnografici ed è stato consulente per la trasmissione Rai Geo e Geo. Ha scritto per varie riviste, tra cui Nazione Indiana e AM – Antropologia Museale. Lavora come tiflodidatta e insegnante.

D Editore porta in libreria Akuaba, il suo primo romanzo, tra noir e cronaca. La trama ci porta in Nigeria, nel 1983: Amma e Adebisi vivono a Lagos, dove sono arrivati in cerca di una vita migliore. A stravolgere la loro quotidianità sarà il nuovo editto del governo che, a seguito di una grave crisi economica, sancirà la cacciata di tutti gli emigrati, considerati i responsabili della situazione. In pochi giorni Amma e Adebisi devono decidere se partire per un esodo senza precedenti o restare violando la legge. Gli eventi però, precipitano in modo inatteso e i due perderanno le tracce l’uno dell’altro.

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Francesco Staffa

Roma, trent’anni dopo: c’è una macchia nel passato di Guido e Ada, un oscuro segreto che li ha segnati a vita. Quel passato scomodo bussa alla porta, affiorando dal luogo dove anni prima tutto era iniziato, quando Franco e Fabiënne, amici di lunga data residenti in Nigeria, li invitarono a trascorrere alcune settimane da loro.

Tre coppie, tre vicende legate indissolubilmente tra loro: tra le trame nostalgiche di un passato tormentato e i contorni di un presente misterioso, tra le fascinazioni della foresta di Osogbo e le meraviglie delle culture indigene, Akuaba è la storia di una migrazione sofferta e di un neocolonialismo impietoso, dove la Storia si intreccia inestricabilmente con i desideri e le ambizioni di chi, per assecondare i propri voleri, è disposto a perdere l’innocenza, a rinunciare alla propria anima.

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