“A me ficcar dentro ai miei gialli la sottotrama rosa è sempre piaciuto… ma questa è la storia di come ciò ha smesso di essere un guilty pleasure…”. Alice Basso torna in libreria con “Le aquile della notte” e una nuova avventura con protagonista Anita. Per l’occasione su ilLibraio.it parla dei suoi “guilty pleasures”, ovvero i “piaceri colpevoli”, ossia quei piccoli atti che, per qualche bizzarra e privata ragione, arrecano godimento, ma che ci si vergogna a confessare in pubblico…

Guilty pleasure” è una delle espressioni entrate di moda negli ultimi anni per identificare qualcosa di molto antico. Letteralmente sarebbero i “piaceri colpevoli”, ossia quei piccoli atti che a noi, per qualche bizzarra e privata ragione, arrecano godimento, ma che ci vergogniamo a confessare in pubblico perché temiamo che gli altri, anziché annuire con un sorrisetto e lanciarci occhiate complici, si irrigidiscano come i Moai dell’Isola di Pasqua e di colpo ci guardino come di solito si guardano le pile di pattume nei documentari sugli scioperi dell’AMSA.

D’altro canto le confidenze sono come le piramidi: si devono disseppellire a livelli, e più si scava più la faccenda rischia di farsi oscura. C’è sempre uno strato oltre il quale si ha ritegno ad affondare la vanga.

I guilty pleasures sono una di quelle cose di cui tutti sembrano divertirsi tantissimo a parlare, salvo poi fermarsi sempre a tanto così dal parlarne veramente.

Mi ricorda sempre le dinamiche dei colloqui di lavoro, quando il tizio delle HR chiede: “Mi dica un suo difetto” e al candidato per un attimo passano negli occhi immagini di sé che 1) appoggia la tazza di caffè tutta sbrodolata sul contratto appena firmato dal cliente, 2) spunta come già lette le dodici email che lo separano dal weekend al grido interiore di “machiccazzosenefrega, se è importante riscrivono”, 3) carica sulla nota spese il pranzo della comunione di sua figlia, e poi finalmente apre bocca e risponde “purtroppo sono un perfezionista“.

Chiedete in giro “qual è il tuo guilty pleasure?” e nove volte su dieci l’interrogato prima farà un sorrisetto malizioso, come se l’idea di aprirsi non gli dispiacesse affatto, come se quasi quasi, in fondo, perché no; poi i suoi muscoli facciali registreranno una frazione di secondo di paresi, e infine risponderà: “Quando sono in macchina da solo, canto le sigle dei cartoni animati degli anni ’80”.

Capirai, ciccio.

Secondo una mia personale stima, il grado di scandalo di un guilty pleasure confessato dev’essere moltiplicato per tre per avere un’idea del grado di scandalo dei veri guilty pleasures del confessante. Esempio: “ogni tanto mi perdo a guardare video di cagnolini” significa “sono capace di passare fino a tre ore al giorno, continuative, in orario di lavoro, staccando il telefono, a fissare reel orribili, puerili, in cui barboncini crudelmente potati a siepe vengono doppiati da fastidiosissime voci umane”.

Ora. Va detto che l’inaccettabilità di un guilty pleasure si misura con scale diversissime a seconda degli ambienti di riferimento. Ho presente contesti in cui ammettere “faccio m’ama/non m’ama con le vibrisse del mio gatto” potrebbe causare molto meno scandalo di “mi piace un casino Sanremo, lo seguo sempre”. Altri in cui “io cucino la carbonara light” non allaccia nemmeno le scarpe a “faccio gli sgambetti agli anziani che incrocio al parco”. (“Poi tengo i punti: una frattura al femore fa cento, tutto il resto a scalare”»: niente, sempre peggio la carbonara.) E, fatalmente, anche nel settore che bazzico di più, quello dell’editoria, ci sono i guilty pleasures che devi confessare solo in microcerchie in cui ti senti al sicuro, in cui sai già che ti capiscono, in cui se s’avvicina un esterno qualcuno sa che deve fare i tre colpi di tosse di segnale e tutti si mettono a parlare di colpo del meteo.

Il mio guilty pleasure di autrice di gialli sono le storie d’amore.

O meglio: lo sono state.

Infatti, quella che segue è la storia di come le sottotrame rosa hanno smesso di essere il mio guilty pleasure.

Io voglio tanto bene a Raymond Chandler, davvero. È uno dei miei autori preferiti, ci sono certe pagine sue che so quasi a memoria e il paradiso per me è un posto in cui Marlowe è protagonista di altri centoventi romanzi. Tuttavia, Chandler un giorno si trovò a dichiarare: in un giallo che si rispetti non deve esserci una storia d’amore troppo eclatante, perché distrarrebbe dal caso, e inconsapevolmente pose le basi di un sacco di problemi esistenziali di una nanerottola italiana settant’anni più tardi. (Non era nemmeno il solo a dirlo, peraltro: anzi, Chandler aveva quantomeno la delicatezza di affermarlo in una postilla alle sue regole per un buon giallo, S.S. Van Dine ne faceva proprio la numero tre delle sue. Insomma: impossibile liquidare il veto come l’opinione personale di uno che era di certo un’autorità ma che, diciamocelo, non è che di suo avesse un rapporto molto sereno con l’aspetto sentimentale della vita.)

Ma a me ficcar dentro ai miei gialli la sottotrama rosa è sempre piaciuto. Sempre, sin dal primo libro. E tanto: al punto che è capitato che qualche presentatore, recensore, libraio arrivasse a definire i miei gialli dei gialli-rosa (“arancioni”, sintetizzo di solito io).

I gialli-rosa esistono, certo, anzi, in giro è pieno così di gialli-rosa; solo che è anche pieno così di intenditori che nel migliore dei casi li declassano a sottogenere e nel peggiore a quelli-non-sono-gialli-veri. E sicuramente c’è chi vive lo scrivere o il leggere i gialli-rosa con grande placidità e disinvoltura, “sì, ai detective dei miei libri fra una scena del crimine e un’autopsia capita pure di uscire a cena con qualcuno, embè? Che problema c’è? Mica cenano sul tavolo delle autopsie sbriciolando i grissini fra i ferri del medico legale, scusa”.

Ma io no. Non all’inizio. All’inizio per me era un guilty pleasure. Lo facevo, scrivevo le mie sottotrame rosa, poi andavo a presentare il libro ed era tutto un buttarla sulla componente metaletteraria, la satira del mondo editoriale, il giallo come strumento per criticare il sociale e bla bla bla.

(Qui ci sarebbe da fare una parentesi e aggiungere che parte della mia reticenza ad ammettere un interesse e un divertimento per le trame romantiche veniva da una questione di genere. Non so se vi ricordate: era il periodo in cui qualcuno, mi pare un libraio, aveva dichiarato sui giornali – vado a memoria – “io i libri di donne non li leggo perché tanto finisce che parlano solo d’amore“, e il risultato era che agli eventi io e la presentatrice di turno potevamo disquisire due ore di tutti gli aspetti intellettualoidi del libro senza neanche menzionare la sottotrama sentimentale grossa così, il proverbiale elefante rosa nella stanza; mentre, se a intervistarmi era un uomo, quello era legittimato a non farsi il minimo problema e come prima domanda darmi di gomito ed esclamare: “Allora, Vani la facciamo andare col commissario o con lo scrittore figo?”. Già. Quante volte.)

Comunque, come ho detto, questa è la storia di come ciò ha smesso di essere un guilty pleasure, e il giorno della svolta è stato il seguente.

Guardate che sarò specifica. Precisa. Farò nomi e cognomi.

(Ah: questo invece è il momento in cui prima di continuare a leggere mi firmate un foglio nel quale mi giurate che nulla di quello che state per scoprire verrà usato da voi contro di me, tipo scoppiandomi a ridere in faccia la prima volta che ci rivedremo a una presentazione. Giurate. Fatto? Vado.)

La blogger Désirée Pedrinelli (ve l’ho detto che facevo i nomi) indice un giorno, in quel di Milano, una tavola rotonda dedicata alla letteratura d’intrattenimento. Invita una bella sfilza di relatori, tra cui la sottoscritta, equamente ripartiti in modo da poter coprire le aree letteratura per ragazzi, letteratura gialla, letteratura rosa. Io sarei lì in rappresentanza della seconda, ma, visto che Désirée giustamente se ne sbatte dello stigma per cui le donne dovrebbero finirla di occuparsi solo di storie d’amore, fa appunto una domanda sulla presenza, nei miei romanzi, anche di storie d’amore. E la sottoscritta compie tre errori.

I primi due, in verità, li aveva già compiuti a monte, prima ancora di aprire bocca:

1) si è presentata senza aver memorizzato bene le biografie degli altri ospiti alla tavola rotonda.

2) Si è seduta a un estremo del ferro di cavallo (ecco, anzi, consiglio generale per chiunque per lavoro debba di quando in quando partecipare a riunioni, conferenze, panel vari: mai, MAI sedersi a un’estremità della fila. Perché poi ti tocca parlare per prima, e improvvisare cazzate mentre gli altri dopo di te avranno tutto il tempo di organizzare il pensiero, e pure di acquisire una certa sicurezza in sé stessi nell’udire le cazzate tue).

L’errore numero 3 invece riguarda proprio la risposta che la sottoscritta dà alla domanda. Infatti:

3) spende due minuti buoni a minimizzare la presenza della sottotrama rosa nei propri libri, come se se ne vergognasse, in un profluvio di “ma poi c’è anche molto altro”, “certo, poi dispiace quando alcuni lettori è la prima cosa che notano” e bla bla bla nonfatemiciripensaretroppo.

Lì per lì l’errore non si palesa immediatamente come tale. Alla fine del mio intervento, sembra ancora tutto normale. Il microfono viaggia lungo la mezzaluna di sedie, finché arriva in mano alle ultime due ospiti, all’estremità opposta della fila.

Le due ospiti sono venute insieme, da Roma. Sono due autrici di romance nonché sceneggiatrici di soap. Si chiamano Gabriella Giacometti ed Elisabetta Flumeri, e una parte di me spera vivamente che leggano questo articolo e si facciano la risata colossale che meritano di farsi alla facciaccia mia, perché credo che non abbiano mai saputo il potere catartico che il loro intervento ebbe quel giorno su di me.

Insomma le due ospiti ricevono il microfono e con una grazia, una padronanza della situazione e una competenza oserei dire accademica sfoderano non una risposta, perché limitarsi a chiamarla “risposta”?, una microlezione di storia dell’editoria, un vero e proprio TedX dal titolo “Com’è cambiata la sociologia del romance e perché è sciocco vergognarsi di leggere romance oggi”, in cui, con tanto di citazioni da studi sociali, articoli, dati statistici, dimostrano che è dagli anni ’80 che l’utenza della letteratura rosa non è più – posto che mai lo sia stata – costituita dall’incolta, frustrata, proverbiale “massaia di Voghera”, ma contempla una netta maggioranza di persone – fra l’altro, non solo donne – realizzate nella carriera e nella vita privata, serene, di solide basi culturali, che affrontano questa letteratura con senso critico, ironia e serena ricerca dello svago.

In sostanza: alla fine della loro miniconferenza, a tutti i presenti è venuta voglia di correre a casa, uscire sul balcone sventolando la copia di La figlia di Mistral che tenevano pigiata in fondo al cassetto dei calzini, e gridare IO LEGGO ROMANCE E ME NE VANTO.

All’altro capo della fila di sedie c’è un cratere.

In fondo al cratere c’è una tizia che ha chiesto una vanga e sta scavando.

La tizia sono io.

Intendiamoci: le due autrici sono state elegantissime e gentilissime, eh. Il loro intervento non era affatto contro di me, anzi. Come tutti gli interventi veramente convincenti, infatti, non era “contro” niente o nessuno: era “pro”. Sono io che l’ho vissuto misurandone ogni illuminante passaggio, ogni serenissima affermazione, sul ricordo delle frasi penose del mio. E pensando ogni cinque secondi: “Ma certo, hanno perfettamente ragione, ma che idiota io a sbandierare tutta quella ridicola excusatio non petita” (perché a pensare in latino ci si sente meno stupidi).

Comunque. Si chiama “ricevere una lezione” perché si impara qualcosa: io da quel giorno ho capito tutte le ragioni per cui non ho alcun bisogno di vergognarmi se mi diverto a leggere o scrivere trame sentimentali. Voi c’eravate già arrivati, dite? Eh be’. Io all’epoca ancora no. Lo facevo, mi piaceva, sapevo che era una cosa che piaceva anche a tanti lettori, ma mi sembrava un’attività illegale, carbonara (light), per la quale aspettarmi di dover venire criticata da quelli che “vedi?, ‘ste femmine, alla fin fine solo d’amore parlano”, e da quelli che “comunque non saranno mai gialli veri”.

Oggi affermo tutta garrula che nei miei libri le sottotrame rosa ci sono eccome, perché è super divertente parlare anche di quella parte lì della vita, è intrigante, è un tipo di piacere e di interesse che tutti capiamo e abbiamo provato, e offre il destro a un sacco di ironia e di scene buffe. (E potrei andare avanti, ma se volete argomentazioni più di spessore vi rimando alle due relatrici di cui sopra, che ve le sanno fornire di prima mano e meglio.)

E se mi chiedete a bruciapelo se nel prossimo libro ci sarà una scena d’amore, be’ – no, non ve lo dico neanche oggi, perché sarebbe spoiler, ma ci siamo capiti.

Le sottotrame rosa non sono più il mio guilty pleasure.

L’AUTRICE E IL NUOVO ROMANZO  – Alice Basso è nata nel 1979 a Milano e ora vive in un ridente borgo medievale fuori Torino. Lavora per diverse case editrici. Con Garzanti ha pubblicato le avventure della ghostwriter Vani SarcaL’imprevedibile piano della scrittrice senza nomeScrivere è un mestiere pericoloso, Non ditelo allo scrittoreLa scrittrice del mistero e Un caso speciale per la ghostwriter.

Nel 2020 è uscito Il morso della vipera, il primo capitolo di una nuova serie ambientata nell’Italia degli anni ’30, con protagonista il personaggio di Anita, e nel 2021 è stata la volta de Il grido della rosa. Lo scorso anno è poi uscita una nuova avventura della stessa serie, Una stella senza luce.

Ora arriva in libreria per Garzanti Le aquile della notte, in cui tornano sia Anita sia gli anni ’30. La trama porta infatti nelle Langhe del 1935. La città nera di fuliggine lascia piano piano il posto alle colline che iniziano a gonfiarsi e i colori a farsi più accesi. Anita, mentre guarda dal finestrino, sa che non sta andando in vacanza, che dovrà lavorare dattilografando per la rivista di gialli Saturnalia per cui lavora, ma per lei è così raro lasciare Torino che tutto le sembra meraviglioso.

Non ringrazierà mai abbastanza la famiglia della fidanzata del suo capo per averla invitata. E inoltre è periodo di vendemmia quindi il momento ideale per visitare le Langhe. Se non fosse che poche ore dopo il loro arrivo il corpo di un ragazzo viene trovato al limitare di un bosco. In quel breve lasso di tempo Anita ha fatto in tempo a conoscerlo e a scoprire che insieme ad altri coraggiosi ragazzi si incontrava di nascosto nella boscaglia per tenere in vita gli insegnamenti degli Scout vietati dal regime. E non è l’unico atto di ribellione di quel paesino costretto a celare segreti e misteri che non possono venire alla luce.

Anita rimane affascinata da tutto questo, forse anche troppo. Trascinata dal rosso rubino del vino che viene da quelle terre si lascia andare con lo scrittore Sebastiano Satta Ascona più di quanto sia raccomandato ad una ragazza della sua epoca che per di più sta per sposarsi. Ma si sa, il risveglio da una buona bevuta in compagnia può essere traumatico soprattutto se c’è una verità da scoprire e la morte di un ragazzo a cui rendere giustizia. Anita ormai sa che in quegli anni così bui solo le parole possono essere la strada giusta. Le parole che i detective che ama le hanno insegnato. Anche se il coraggio di non fermarsi davanti a nulla Anita lo ha trovato dentro di sé. E ora ha bisogno di molto coraggio perché i fili delle sue intuizioni portano dove non avrebbe mai voluto…

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