Alice Basso torna in libreria con “Una stella senza luce”, nuovo romanzo della serie dedicata alla dattilografa Anita, e per l’occasione torna anche su ilLibraio.it con la sua ironia. La scrittrice, accusata da un amico di “fare ghosting”, “gaslighting” e “trolling”… risponde (nel suo stile) a suon di neologismi (e inglesismi): da “railswitching” a “boomeranging”, passando per “overchatting” e… Scoprite a quali malcostumi si riferisce…

Qualche tempo fa un mio amico mi ha accusata di fare ghosting.

Premessa – e sì, lo so, è molto scortese da parte mia fare una premessa dopo avervi fatto credere nella prima riga che sarei andata una volta nella vita dritta al punto, dopo avervi illusi che per una volta nella vita non vi avrei trascinati in qualche divagantissima parentesi o giustappunto premessa, ma nessun ha detto che sarebbe stato un gioco leale e comunque questo è il mio articolo e quindi: premessa.

Io non sono una di quelle puriste della lingua italiana che se sente dire “lockdown” salta su come se si fosse seduta su un petardo replicando Un giorno di ordinaria follia e bercia “Isolamento! C’è un termine italiano, è isolamento, usiamolo, perdìo! Abbiamo una lingua ricca e bellissima che” e bla bla bla. Penso che effettivamente abbiamo una lingua ricca e bellissima eccetera eccetera, ma in una scala fra l’esempio umano sopra descritto e l’estremo opposto (il giovane rampante a cui è stato fatto credere che dire “ti brieffiamo sul task di sviluppare delle skill di problem solving” sia un modo di esprimersi vincente) mi colloco abbastanza al centro.

Per dire, mi danno molto più l’orticaria le italianizzazioni di termini stranieri che nella loro lingua avrebbero anche un senso, ma ritradotti nella nostra diventano delle deformazioni di roba che già esisteva: ad esempio l’altro giorno una pubblicità radiofonica mi ha reso note le proprietà “detossificanti” per la pelle di un certo salcavolo, credo prodotto di cosmesi, e comunque non l’ho capito perché il mio cervello si è subito trovato impegnato a chiedersi “perché ‘detossificanti’ sì e ‘disintossicanti‘ no?” (immagino che la risposta sia: perché al verbo “disintossicare” non associamo più la depurazione da ciò che è tossico in senso lato, bensì l’immagine precisa di una rockstar che si fa chiudere in una clinica da diecimila dollari al giorno per superare un problema con le droghe – ah no, scusate: quello ormai si chiama “essere in rehab”).

Ma sto divagando.

Che scoperta.

Dicevo.

Insomma ‘sto mio amico mi becca di persona, ciao ciao e poi subito mi fa notare, l’insolente: “Questa settimana ti ho cercata al telefono tipo tre volte e non mi hai mai né risposto né richiamato: fai ghosting!”.

Io, sempre sul pezzo: “Semmai faccio dattilografing. Ora sono impegnata a scrivere una serie su una dattilografa, la serie sulla ghostwriter l’ho finita tre libri fa”.

Lui mi guarda con pietà e in virtù del suo essere ben cinque anni più giovane di me mi spiega con la pazienza che si deve agli anziani che “ghosting” è il termine ormai in uso per definire gli stronzi che li cerchi e non si fanno trovare, manco si fossero appunto fatti nube e vapore e dissolti nell’aria umida della notte pur di non dedicarti cinque maledetti minuti al telefono.

Io: “Che stronzi”.

Fra parentesi: aveva perfettamente ragione. Io faccio ghosting.

“È tutta una tua idea, stai proiettando su di me cose di cui ti sei convinto da solo”, ho ovviamente risposto.

Lui ha socchiuso gli occhi e mi ha guardata come Clint Eastwood attraverso un mirino. “E adesso stai facendo gaslighting”.

Siccome “gaslighting” è una parola tornata di moda ultimamente ma che appartiene a un certo gergo psicanalitico colto già da mo’, stavolta mi sono beccata una spiegazione più articolata che mi ha ricordato perché faccio ghosting pur di non rimanere inchiodata a una conversazione per più di cinque minuti.

“Gaslighting” è quando manipoli mentalmente una persona facendole credere che le sue percezioni su una certa cosa siano totalmente fuorviate, anzi, cretina lei ad averle anche solo pensate. Insomma, come se, nella classica vignetta d’epoca in cui la moglie rincasa all’improvviso e becca il marito a letto con l’amante, il marito non solo dicesse come da cliché “Cara, non è come pensi”, ma lo dicesse pure indignato, offeso dal fatto che la moglie abbia potuto fare una cosa sciocca come credere al proprio fallace senso della vista.

Io: “Ma figuriamoci, io non rispondo solo perché sono impegnata, e sono spesso molto impegnata, quindi non so come tu abbia potuto pensarlo, anzi, mi offendi anche un po’”.

Appunto: gaslighting.

Lui strizza ancora un po’ di più gli occhi, ormai mi chiedo come faccia a vederci. “E adesso stai quasi scivolando nel trolling”.

Trolling la so: quando provochi apposta per far incazzare gli altri.

Vabbè, poi non è successo niente, eh, non è che siamo venuti alle mani, ve lo dico prima che immaginiate scene di rese dei conti alla Callaghan. Però ‘sto tarlo mi è rimasto: è vero che oggigiorno per definire un comportamento cronico irritante c’è quasi sempre a portata di mano un’etichetta in -ing?

Ma soprattutto: possibile che ce le abbia tutte io?

Ci ho riflettuto e ho deciso di no. (Denying?) Insomma, là fuori è pieno di comportamenti che io trovo irritanti e che provengono da gente che non è me. (Jaccusing?) Quindi ora ho deciso che combatterò le etichette con altre etichette (fingerpointing?!), e vi proporrò delle comode stigmatizzazioni colpevolizzanti da ritorcere contro chi, come me e voi (ammettetelo), fa a volte dell’innocuo ghosting (e conseguente gaslighting, ehm) per legittima difesa, ma si sente ferito da tutti quei pungentissimi -ing.

Overchatting

Questa è la roba che ci costringe a difenderci col ghosting: il terrore di doverci sorbire minuti di chiacchiere inutili per arrivare a un nucleo di contenuto reale che, per messaggio, avrebbe richiesto un terzo del tempo. Non so voi, ma io detesto particolarmente questa prassi quando viene mascherata da “educazione” o “buona norma per mantenere i rapporti umani”: per esempio, quando tu mandi una email di lavoro e il ricevente preferisce chiamarti e farsi ripetere a voce quello che gli hai appena scritto, non lo fa, come cerca di darti a bere, perché “già che ci siamo avevo piacere di chiamarti, è tanto che non ci sentiamo!”, ma perché prendersi del tempo solitario per leggere la tua email e poi elaborare una risposta ponderata gli è sembrato più faticoso che farsi riraccontare a voce il tutto da te e risponderti lì su due piedi. È come se ti condannasse a perdere con lui il tempo che a lui sarebbe servito per leggere, ragionare e rispondere. Che immenso fastidio.

Railswitching

Okay, devo trovare un nome migliore, questo è troppo complicato, comunque dovrebbe rendere l’idea: il railway switch è il cambio manuale dei binari, quello che nei western viene azionato tramite una leva gigantesca e arrugginita da un personaggio mentre un altro personaggio strilla “Il treno! Presto! Arriva il treno!” senza peraltro muovere un dito e finalmente la leva cede e con un assordante skreeeetch i binari vengono deviati e il convoglio carico di passeggeri urlanti evita di imboccare il ponte minato o qualcosa del genere. Nella mia visione in realtà è una cosa negativa: è il gesto metaforico – riportare sempre il “viaggio” della conversazione sul proprio binario – di quelli che, di qualsiasi affaraccio tuo tu gli stia parlando, a un certo punto fanno sempre riconvergere la discussione su di sé. Senza arrivare al cliché delle anziane signore che fanno a gara di acciacchi (“Il cardiologo mi ha dato due mesi di vita!” “Eh, ma pure io con queste unghie incarnite…”), è tremendo perché ti illudi di venire ascoltato, per poi accorgerti che l’interlocutore stava solo aspettando spasmodicamente di veder apparire la leva nel finestrino, per dirottare la conversazione su di sé.

Boomeranging

Qui già vedo orde di teste che annuiscono a significare “oh, come lo conosco bene”. Qualcuno fa una cazzata: tu giustamente gliela fai notare, lui si indispettisce perché ha la coda di paglia e improvvisamente è colpa tua che facendogli notare la cazzata sei stato uno stronzo perché l’hai sadicamente colpevolizzato. Esempio: madre che si infuria con figlio, che è andato a telefonare dimenticandosi aperto il rubinetto della vasca, e ora il bagno sembra le paludi della Florida, coi tappetini e ciabatte che galleggiano come ninfee. Il pargolo non può spingersi fino a negare di avere fatto una cazzata, ovviamente, ma si attacca al fatto che la madre abbia urlato: “Miii, cheppalle, ho capito, basta, non c’è bisogno di fare la pazza, tanto anche se urli ormai non cambia niente!”. Come se la soglia dell’accettabilità della reazione fosse un urbano tap tap sulla spalla e un sommesso: “Non vorrei disturbarti, ma permettimi di farti notare che la tua svista ha trasformato il condominio nella Torre d’Acqua di Gardaland. Te lo dico, sia chiaro, solo affinché la prossima volta tu ti ricordi di prestare attenzione. A proposito, con chi stai parlando, con Gigi? Salutamelo”.

Qui un termine italiano ci sarebbe eccome, “scaricabarile”, ma che ne sanno i giovani di cosa sia un barile e perché mai lo si dovrebbe caricare o scaricare? Oltretutto “boomeranging” include “boomer”, e mi sembra una coincidenza quanto mai opportuna, visto che a mio vedere si tratta di un modo di fare tipico di quella generazione (“i giovani ci accusano di avergli lasciato un pianeta in stato comatoso e un’economia al collasso? Questo astio ci ferisce!, sono solo bambinetti inesperti e viziati che non sanno che criticare” e bla bla bla. Sì, be’, comunque è vero che avete lasciato un pianeta comatoso e un’economia al collasso). (Poi c’è la mia generazione, né boomer né millennial, a quanto pare fatta di grunge piagnoni e inconcludenti che ce l’hanno con tutti ma si autocolpevolizzano anche volentieri, ma questo è un altro discorso.)

Questi sono i miei tre. Liberissimi di allungare la lista, tanto lo so che ce n’è a palate. Io mi fermo solo per ragioni di spazio e per non rischiare di sfociare nel lagning, nel cel’hocontuttying e nel tuttiorrenditrannemeing. E torno a fare un po’ di ghosting, che mi viene tanto bene.

Questi sono i miei tre. Liberissimi di allungare la lista, tanto lo so che ce n’è a palate. Io mi fermo solo per ragioni di spazio e per non rischiare di sfociare nel lagning, nel cel’hocontuttying e nel tuttiorrenditrannemeing. E torno a fare un po’ di ghosting, che mi viene tanto bene.

alice basso una stella senza luce

L’AUTRICE – Alice Basso è nata nel 1979 a Milano e ora vive in un ridente borgo medievale fuori Torino. Lavora per diverse case editrici. Con Garzanti ha pubblicato le avventure della ghostwriter Vani SarcaL’imprevedibile piano della scrittrice senza nomeScrivere è un mestiere pericoloso, Non ditelo allo scrittoreLa scrittrice del mistero e Un caso speciale per la ghostwriter.

Nel 2020 è uscito Il morso della vipera, il primo capitolo di una nuova serie ambientata nell’Italia degli anni Trenta, e nel 2021 è stata la volta de Il grido della rosa.

Arriva ora in libreria per Garzanti Una stella senza luce, che ci porta a Torino nel 1935. Il lunedì di lavoro di Anita inizia con una novità: Leo Luminari, il più grande regista italiano, vuole portare sul grande schermo uno dei racconti gialli pubblicati su Saturnalia, la rivista per cui lei fa la dattilografa. Questo significa seguire il dietro le quinte e intervistare gli attori per poi riportare tutto in un’appendice speciale. Tutto quello che ogni donna di quegli anni ha sempre desiderato. E che anche Anita desidera, non indifferente al fascino di quest’arte. Ma la sorpresa per Anita dura solo pochi giorni, fino a quando il corpo senza vita del regista non viene ritrovato nella sua stanza. Con lui finisce il sogno di conoscere tutti i segreti del mondo del cinema. E c’è anche qualcosa che inizia in quell’esatto istante. Qualcosa che può essere molto pericoloso per Anita. Perché dietro quella morte potrebbe nascondersi la censura del regime la cui ombra potrebbe allargarsi fino alle pagine di Saturnalia. Anita e il suo capo, Sebastiano Sacco Ascona, sanno che per loro questo non può accadere. Hanno troppi segreti che devono rimanere tali.

Non rimane altro che indagare e ficcare il naso tra spade, parrucche e oggetti di scena. Tra amicizie e dissapori che uniscono vecchi divi, ormai stelle che hanno perso la loro luce. Ogni passo falso può essere un azzardo, ogni meta raggiunta può rivelarsi sbagliata. Anita sa ormai come funziona. Eppure questa volta è più difficile, forse per colpa di quell’incubo che non la lascia in pace. Un incubo in cui lei ha un abito da sposa, ma nero. Perché come le pagine di un libro i giorni passano e portano verso il raggiungimento di una promessa, anche se si vuol fare di tutto per non attenderla.

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