“Due guerre mondiali hanno cambiato la storia della mia famiglia, hanno reso i miei antenati apolidi, eternamente esuli”. Su ilLibraio.it Annick Emdin, drammaturga e regista teatrale nata a Pisa nel ’91, racconta il suo primo romanzo, “Io sono del mio amato”, che ci porta nel quartiere ultraortodosso di Mea Shearim, a Gerusalemme: “Scrivere è un atto assieme profano e sacro, profano, perché vìola la verità del reale, la trasfigura, la imbelletta, le cambia letteralmente i connotati, e sacro, perché la eterna”

Tra i reperti storici della mia famiglia, c’è un antico video che ritrae la seguente scenetta: siamo in tinello, a pranzo, io ho circa tre anni e sono sul seggiolone. La traccia sonora prevede un’accesa discussione tra i miei zii e le mie zie, un capriccio tremendo di mia cugina e la voce di mia madre che l’ammonisce. In tutto ciò, il telefono squilla incessantemente, ignorato da tutti, eccetto che da me. Brandendo il cucchiaino di pappa, con molta calma continuo a sillabare: “Te-le-fo-no! Te-le-fo-no!” nel vano tentativo di comunicare alla mia famiglia l’esistenza di un mondo esterno e la possibilità di interagirci.

Forse scrivere è ancora oggi, per me, questo tentativo ‘telefonico’, il tentativo di mettere in contatto mondo interno e realtà, dinamiche di rapporto intime e universali, storia familiare e storia del mondo.

“Io sono del mio amato” è, come del resto ogni storia, un tentativo di dare una forma al caos dell’esistenza, di trovare risposte a domande eterne.

Mentre si scrive però ci si accorge che le risposte consistono in altre domande e che, più si è vicini al vero, più le domande restano insolubili, più si inizia a scivolare sui paradossi, sulle contraddizioni dell’animo umano.

Penso che le storie cerchino di unire il particolare e l’universale, in modo che nel particolare risulti l’universale, e in questo caso il particolare è la famiglia, la storia di una famiglia, e questa famiglia potrebbe rappresentare l’umanità, il desiderio umano che i nostri figli e nipoti possano fare ciò che noi non abbiamo potuto fare, avere ciò che non abbiamo avuto, e possano invece non conoscere mai ciò che noi abbiamo conosciuto, non soffrire mai ciò che noi abbiamo sofferto.

Siamo costruiti dal nostro rapporto con l’altro, con l’altra, dal nostro rapporto con Dio, dal nostro rapporto con la Storia, dal nostro rapporto con la più intima contraddizione umana: il conflitto, la guerra.

Ognuno di noi ha una sua personale interpretazione del mondo, e forse questo crea un’infinità di mondi diversi, che interagiscono tra di loro, e le centinaia di migliaia di interazioni alterano ciascuno di questi universi soggettivi, e tutto questo insieme di infinite interpretazioni soggettive è il mondo oggettivo, il mondo in cui viviamo.

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La nostra esistenza è determinata dalle nostre scelte e dal caso, dalle coincidenze, dalle circostanze in egual misura.

Questo romanzo è il racconto di due vite che si alternano: quella del giovane Levi, amatissimo primogenito di una famiglia charedi, ultraortodossa, e quella del suo nonno Chaim, l’inflessibile patriarca di questa famiglia. La storia della famiglia Kogan comincia molto lontano da Israele, in un piccolissimo shtetl in Ucraina. Sono i capovolgimenti della Storia a determinare il presente, sono le perdite a determinare i viaggi, gli incontri, gli amori, in qualche modo, è la morte a determinare la vita.

Racconto due Paesi che non avevo conosciuto prima di scrivere il libro, mossa da un’inspiegabile nostalgia per qualcosa che ha fatto parte della mia storia familiare, ma al tempo stesso mi è stato tolto molto prima che potessi conoscerlo. Chissà, forse, se la Storia fosse andata in modo diverso, non avrei guardato la mia città dalla finestra oggi, ma San Pietroburgo, o Xomel, in Bielorussia, o Haifa, o Gerusalemme, o Genova, o Barcellona. Ma due guerre mondiali hanno cambiato la storia della mia famiglia, hanno reso i miei antenati apolidi, eternamente esuli, e forse se così non fosse stato, in effetti un’altra ragazza diversa da me avrebbe guardato dalla finestra, forse io non sarei mai nata.

Lo stesso atto di scrivere – come l’atto di mettere al mondo dei figli, come qualunque atto creativo –  penso sia sempre determinato da un’impossibile nostalgia per qualcosa che non conosciamo, qualcosa verso il quale il nostro inconscio si tende. Ri-generiamo la verità mentendo: questo è ciò che fanno gli scrittori, e per questo motivo non parlo della mia famiglia in questo romanzo, ma di una famiglia inventata, perché è più facile, in questo modo, raccontare qualcosa di vero riguardo a me stessa.

Questa storia dunque è figlia di tante altre storie, di tante suggestioni diverse, di tanti racconti – da Safran Foer a Isaac Singer, da Elie Wiesel a Bettelheim, da Spiegelman a Primo Levi, e ancora Eshkol Nevo, Amos Oz, e un’infinità di altri. Ed assieme a questi grandi autori, che mi hanno fatto vedere con i loro occhi posti che non avevo mai visto, nella mia anima si sono mescolati altri racconti – frammenti – i racconti dei miei nonni, degli zii, pezzi di conversazioni in altre lingue che sono andate perdute negli anni – Italiano lingua franca in casa mia, per la mia famiglia di russi, israeliani, spagnoli, francesi, olandesi, indiani – eppure ci sono ancora scatole piene di lettere, di racconti, di poesie mai tradotte scritte in alfabeti diversi da quello che io conosco.

È così, facendo mie le storie degli altri, basandomi sull’assunto che in qualunque luogo del mondo, all’interno di una famiglia, i meccanismi sono i medesimi, che in qualunque luogo del mondo un uomo e una donna si innamorano nello stesso modo – “Io sono del mio amato, e il mio amato è mio” -, che mi sono provata a raccontare ciò che non ho conosciuto in prima persona, ma che era mio di sangue, mio di Storia. E in questo ho avuto l’aiuto di persone meravigliose: la mia famiglia, Claudia Napolitano, la casa editrice Astoria, Giuseppe Piccioni, il primo a udire l’eco di questo romanzo e a leggerne le pagine, Anna Francesca Leccia che con me si è avventurata nei meandri delle ricerche storiche, ed il mio zio Alex Roifer che mi ha raccontato ciò che ha vissuto e  vive, in Palestina prima, in Israele poi. Tutte le loro voci si sono unite alla mia nella genesi di questo libro.

La verità si reinventa nella finzione, le passioni umane cercano e trovano un modo di esprimersi, la Storia si mescola al quotidiano, macchiando di minuscoli segni indelebili la pagina bianca.

In effetti, siamo l’esatto prodotto della Storia e questo ci porta anche ad essere l’esatto prodotto di ciò che combattiamo.

Ognuno di noi è eternamente diviso tra una pulsione a cercare di raggiungere finalmente uno stato di quiete, e una pulsione a infrangere uno stato di quiete e a creare un conflitto, tra una pulsione alla morte e una pulsione alla vita.

Voglio credere che la pulsione alla vita sia più forte della pulsione alla morte.

In questo romanzo si parla di come le mura che cerchiamo di costruire attorno a noi stessi per difenderci – mura fatte di religione, mura fatte di famiglia, mura fatte d’amore, mura fatte d’odio e disperazione – possano d’un tratto sembrarci una prigione.

In questo romanzo si parla della necessità umana di varcare i confini, di spingersi oltre ciò che conosciamo, verso l’ignoto, di spencolarsi dall’orlo del precipizio sul mare in tempesta, e della necessità di distogliere lo sguardo, di prendere dentro di sé quell’abisso, di portarlo dentro di noi anche quando camminiamo sulla terraferma.

Penso che nel guardare l’abisso, e nel ritrarsi da esso, ci sia una scintilla di divino.

“Ogni cosa è sacra. Ognuno è sacro. Ogni luogo è sacro. Ogni giorno è nell’eternità.” Ha scritto Allen Ginsberg.

Scrivere è un atto assieme profano e sacro, profano, perché vìola la verità del reale, la trasfigura, la imbelletta, le cambia letteralmente i connotati, e sacro, perché la eterna.

io sono del mio amato annick emdin

L’AUTRICE – Annick Emdin è nata a Pisa nel 1991, è laureata in Discipline dello Spettacolo e ha conseguito il master in Sceneggiatura e Drammaturgia presso l’Accademia Silvio D’Amico. È scrittrice, drammaturga, regista teatrale (Matrioska, Bambole Usate, Medea, La sposa guerra, La morte non esiste) e sceneggiatrice (L’ombra del giorno, di Giuseppe Piccioni).

In libreria per astoria arriva il suo romanzo d’esordio, Io sono del mio amato. La trama ci porta a Gerusalemme, nel 1995: nel quartiere ultraortodosso di Mea Shearim vive Levi Kogan, primo di sette fratelli, che ha sempre vissuto secondo le tradizioni e le norme religiose della comunità charedi per volontà di nonno Chaim, di cui è il nipote prediletto. Un giorno Levi fa un incontro che gli cambia la vita: Yael, una giovane soldatessa, lo salva da un attentato e il ragazzo, colpito dall’episodio, sente forte l’impulso a impegnarsi nella difesa del suo Paese. E s’innamora proprio di Yael, tanto diversa da lui e dal suo ambiente: una ragazza che fuma, indossa pantaloni corti, non sa cucinare ma sa maneggiare le armi… Ma seguire il cuore vuole dire essere espulsi dalla comunità charedi e dalla propria famiglia; soprattutto significa deludere nonno Chaim, che Levi stima più di chiunque altro. E così, le scelte del ragazzo sono messe a confronto con il racconto di un’altra vita, una vita segreta, quella di Chaim che inizia in una sperduta cittadina ucraina nel 1941, il giorno del suo matrimonio. Durante la celebrazione, Chaim non può immaginare quanto il suo destino verrà sconvolto di lì a poco.

In un alternarsi di passato e presente si dipanano le vicende di nonno e nipote, nel contesto della grande Storia e della piccola storia di una famiglia di ebrei osservanti, di volta in volta costretta ad affrontare una realtà multiforme, a constatare quanto complicati possano essere i rigidi precetti della religione e quanto sia necessario derogare alle norme dettate.

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