Il racconto della Pasqua ebraica della 25enne Sara festeggiata via Skype, causa covid-19; la serie Netflix del momento, “Unorthodox” (nella foto), e alcuni consigli di lettura per conoscere ogni sfumatura di un’identità immensa come quella ebraica. Da “Eccomi” di Jonathan Safran Foer ai romanzi di Chaim Potok, passando per “Lamento di Portnoy” di Philip Roth e “L’ultimo dei giusti” di André Schwarz-Bart e “Una storia di amore e di tenebra” di Amos Oz

Sara ha venticinque anni, è nata a Milano, vive a Barcellona ed è ebrea da parte di madre e di padre e, risalendo le generazioni, lo è da sempre.

È l’8 aprile e Sara sta festeggiando l’inizio della Pasqua ebraica insieme alla sua famiglia, quest’anno in un modo un po’ speciale: “Data l’emergenza Coronavirus e la lontananza dei familiari, abbiamo celebrato il seder, la cena tradizionale di Pasqua, con una bellissima videochiamata. C’erano perfino i nostri parenti da Israele, oltre a tutta la famiglia sparsa nel Nord Italia. Abbiamo letto l’Haggadah, il libro che seguiamo per celebrare il seder, e recitato i canti che, sempre, sono ricchi di risate e tradizione. Abbiamo spiegato ai più piccoli ogni cosa, raccontando loro la storia del nostro popolo in fuga”.

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La Pasqua ebraica, infatti, celebra l’esodo, ovvero l’uscita degli ebrei dall’Egitto, dove erano schiavi. La fuga, guidata dal profeta Mosè, fu così veloce da non lasciar loro il tempo di far lievitare il pane e costringerli, per giorni, a mangiare azzime. Per questo ancora oggi, nei giorni di Pasqua il lievito è un alimento vietato sulla tavola delle famiglie ebraiche, compresa quella di Sara.

“Abbiamo mangiato i cibi tipici, rimpiangendo di non aver potuto cucinare insieme l’agnello e di non poter assaggiare i canederli di mia mamma. Abbiamo mangiato l’erba amara piegati sul gomito sinistro, per celebrare la nostra libertà: ora che siamo un popolo libero non dobbiamo più mangiare composti come gli schiavi”, ci racconta. E prosegue: “Nella nostra famiglia la tradizione è importante. I miei genitori sono due ebrei italiani, anche se originari di realtà un po’ diverse: mio padre arriva da una famiglia per la quale la religione è pura tradizione; mia madre, invece, è cresciuta in un contesto totalmente assimilato, che considerava l’ebraismo come storia e cultura. Con gli anni entrambi hanno deciso di riavvicinarsi alla religione e, per questo, sia io che mio fratello abbiamo studiato alla scuola ebraica di Milano. Se qualcuno dovesse chiedermi cosa sia per me la religione, con un largo sorriso, risponderei che è pura tradizioneHo sempre avuto idee lontane da quelle della mia famiglia, ma non mi negherei mai di celebrare con loro una festa importante, come quella della Pasqua”.

Mentre Sara e la sua famiglia festeggiavano l’inizio di Pèsach, molti di noi stavano guardando Unorthodox, la miniserie Netflix uscita il 26 marzo e ispirata all’autobiografia di Deborah Feldman. Unorthodox, prima serie prodotta da Netflix a essere girata quasi interamente in Yiddish, racconta la fuga della diciottenne Esty dalla comunità ebraica ultraortodossa di cui è parte, a Williamsburg, New York, per cominciare una nuova vita a Berlino.

La vita chassidica di Esty è un continuo rituale, e ogni gesto quotidiano è una cerimonia piena di riverenza. Il matrimonio è combinato; i capelli rasati a zero subito dopo le nozze e sostituiti da una parrucca, sheitel; le donne sono mogli e madri; non ci sono smartphone, internet, tv, jeans, libertà. Il fulcro della vita chassidica è la famiglia, intesa come mezzo attraverso cui mettere al mondo nuova vita e compensare la perdita delle sei milioni di vittime dell’Olocausto. E Esty, che dopo un anno di matrimonio non è ancora rimasta incinta, è considerata strana e incompleta.

Ciascuna delle quattro puntate di Unorthodox è girata con la maestria di una grande produzione, ma mantiene la sincerità di un racconto intimo. Per questo vale la pena prendersi venti minuti in più per vedere il making of della serie e farsi raccontare da chi l’ha ideata e resa possibile, anche ogni più piccola scelta.

Unorthodox è il racconto delicato e realista di un estremismo, piccola parte di un’identità gigantesca e dall’enorme peso specifico come quella ebraica

Sara, che quell’identità la conosce bene, ammette: “La serie Unorthodox mi ha totalmente rapita, ma anche un po’ spaventata. Se vista dagli occhi di chi non conosce, quella potrebbe sembrare l’unica definizione di un’identità religiosa che invece è assai variegata. I chassidim, ovvero gli ultraortodossi, sono un gruppo decisamente minoritario. I lati estremi sono presenti in tutte le religioni ma sta a ognuno di noi trovare il giusto equilibrio e seguire la strada che ci rende felici”. 

Così, per conoscere meglio l’immensità della cultura ebraica, si può iniziare da qualche bella lettura, magari dopo aver guardato Unorthodox

Sara consiglia, Spara, tanto sono già morto (Mondadori, traduzione di E. Rolla) di Julia Navarro

Spara sono già morto Julia Navarro

Questo libro racconta una storia lunghissima, che va dai primi insediamenti degli ebrei nei territori palestinesi all’inizio del Novecento, fino a oggi, passando attraverso i pogrom, i rapporti con le fazioni arabe e il susseguirsi delle generazioni, definendo l’identità del moderno Stato d’Israele. Il racconto di Julia Navarro riesce così a spiegare anche alcune scene di UnorthodoxEsty, a Berlino, conosce una ragazza israeliana, Yael. Lei pantaloncini corti e t-shirt scollate, Esty gonna a metà polpaccio, bottoni fino al collo e scarpe basse: “La prima rappresenta l’identità ebraica moderna, incarnata nel corpo di una giovane col diritto di vivere appieno la vita e i suoi anni. Esty, invece, è il frutto di un estremismo religioso, una ragazza americana che non ha conosciuto niente di sé e del mondo”. Dice Sara. Esty, invece, a Yeal dice “Williamsburg non è l’America”. 

Eccomi (Guanda, traduzione di Irene Abigail Piccinini), Jonathan Safran Foer

Eccomi Foer

“ – Eccomi – Così risponde Abramo quando Dio lo chiama per ordinargli di sacrificare Isacco”. Eccomi di Jonathan Safran Foer (autore, tra gli altri, di Ogni cosa è illuminata e Molto forte, incredibilmente vicino)è la storia di una famiglia ebrea americana in crisi: tradimenti coniugali veri o presunti, frustrazioni professionali, ribellioni e domande esistenziali di figli adolescenti, pensieri suicidi, tutto all’ombra di una possibile distruzione di Israele.

Danny l’eletto (Garzanti, traduzione di Marcella Bonsanti), Chaim Potok 

Danny l'eletto Chaim Potok

Negli anni della seconda guerra mondiale Reuven Malter e Danny Saunders s’incontrano su un campo di baseball a Brooklyn. I due ragazzi, entrambi ebrei, fanno parte di due comunità religiose rivali ma questo non impedirà loro di instaurare un forte legame di amicizia.

Il mio nome è Asher Lev (Garzanti, tradizione di D. Saroli), Chaim Potok

Il mio nome è Asher Lev Porok

Un altro libro di Chaim Potok, di nuovo ambientato nella comunità chassidica di Brooklyn. Il protagonista, Asher Lev, ha uno straordinario dono per la pittura che non si sposa con leggi e tradizioni del suo ambiente d’origine. L’intero romanzo è una riflessione sul rapporto tra fede e contemporaneità, raccontati attraverso l’arte.

Lamento di Portnoy (Einaudi, tradizione di R. C. Sonaglia), Philip Roth

Lamento di Portnoy Philip Roth

Lamento di Portnoy è il monologo di Alexander Portnoy, appunto, dal suo psicanalista, il dottor Spielvogel. Il protagonista e narratore è un ebreo americano, morbosamente attaccato alla madre e alle tradizioni ebraiche, alla disperata ricerca di moglie e figli ma disperatamente convinto di esserne incapace. La scrittura è la solita diretta e scanzonata di Philip Roth, in uno dei suoi libri più importanti.

L’ultimo dei giusti (Feltrinelli, traduzione di Valerio Riva), André Schwarz-Bart

L'ultimo dei giusti Schwarz Bart

“Da quando ho cominciato a scrivere, il mio sogno è stato di poter trattare un argomento come quello di L’ultimo dei Giusti. Ma per molto tempo non ne ho avuto il coraggio. Non voglio dire che pensassi di non averne i mezzi, voglio realmente dire che non credevo di avere il diritto di scrivere un libro come questo”. Con queste parole l’autore André Schwarz-Bart racconta la difficoltà di scrivere un romanzo come questo, che è l’atto finale della ricerca di un’identità ebraica, legata al passato per fatti e tradizioni, e spesso fatta di dolori e sofferenze come quella dell’Olocausto

Una storia di amore e di tenebra (Feltrinelli, traduzione di Elena Loewenthal), Amos Oz

Una storia di amore e di tenebra amos oz

Un’autobiografia che racconta la storia della famiglia Oz in un’epica Gerusalemme di metà Novecento e una Tel Aviv a lei in contrasto. Ma la storia degli Oz è solo il pretesto per attraversare centovent’anni di vicende familiari e le sue quattro generazioni di sognatori, falliti, poeti, riformatori e pecore nere.

Grazie a Sara che, con sincerità e intelligenza, ha scelto di raccontare un’intima parte della propria identità che, da oggi, è anche un po’ nostra. 

Giulia   

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