“Il mio stimolo principale è la descrizione del comportamento umano, sia nella sfera intima sia in quella sociale. Con l’aiuto della letteratura, creo ritratti di persone comuni in contesti geografici e temporali a me familiari. Mi limito a raccontare la vita come la vedo io e, oltre a fornire una prospettiva, una manciata di storie, spero attraenti, e un po’ di arte della parola scritta, non pretendo nulla di più”. Fernando Aramburu, uno dei più importanti autori europei, torna con “Il bambino” e per l’occasione si racconta con ilLibraio.it. Parlando anche del suo approccio alla scrittura e della situazione dell’Europa, a livello politico e letterario – L’intervista
È il 23 ottobre 1980. Un’esplosione in una scuola scuote la cittadina di Ortuella, vicino a Bilbao. Muoiono cinquanta alunni fra i cinque e i sei anni e tre adulti. Qualcuno pensa a una bomba dell’ETA, ma si tratta di una banale, fatale fuga di gas.
Ancora una volta Fernando Aramburu parte da un drammatico fatto di cronaca che ha scosso la Spagna, per restituire con Il bambino (Guanda, nella traduzione di Bruno Arpaia) un affresco sulla perdita e sulla ricostruzione, sul dolore straziante per una vita spezzata prematuramente e l’amore che non si esaurisce.
L’autore nato a San Sebastián aggiunge così un nuovo capitolo alla serie dedicata alla sua gente, la “Gente basca” sublimata in Patria, romanzo potentissimo uscito in Italia nel 2017, tradotto in 34 lingue e vincitore di numerosi riconoscimenti in tutto il mondo, tra cui il Premio Strega Europeo 2018.
“È solo che il cuore mi si spezza, tesoro mio, al pensiero che io… che abbia potuto… trovare per tutto questo parole”. Così David Grossman in Caduto fuori dal tempo si interroga sulla difficoltà di dare voce al lutto per la morte del figlio, “caduto” nella guerra in Libano nel 2006.
Aramburo ne Il bambino trova le parole, mescolando finzione e realtà, ma la densità emotiva è tale che in dieci momenti decide di affidare la voce al romanzo stesso. Dieci interruzioni che nel prologo definisce “oasi di calma riflessiva in una storia che si muove di frequente ai limiti dell’intensità”.
Del perché questa storia abbia lasciato un segno indelebile al punto da trasformarla in romanzo e della psicologia dei suoi personaggi, Aramburu parla con ilLibraio.it. Ma non solo. Nel corso dell’intervista qui di seguito svela le ragioni delle sue scelte letterarie (“Il mio stimolo principale è la descrizione del comportamento umano, sia nella sfera intima sia in quella sociale”), il suo rapporto con gli adattamenti delle sue opere, la sua idea di democrazia e di futuro.
Questa storia ha riecheggiato più volte nella sua memoria. Perché proprio adesso ha deciso di raccontarla?
“Non c’è una ragione particolare che mi ha spinto a scrivere questa storia ora. Avrei potuto scriverla vent’anni fa o in futuro o mai. È vero che la tragedia nella mia patria, quando avevo 21 anni, ha lasciato un segno profondo nella mia memoria. È stato rinnovato dal fatto che ho lavorato per molti anni come insegnante, in parte di bambini della stessa età di quelli che sono morti a Ortuella. Ma una storia non è solo una trama. È anche una o più voci narranti, una struttura, un linguaggio letterario, un’opera di documentazione, etc.”.
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Nicasio di solito sale al cimitero il giovedì. “Io non vado a trovare la tomba, vado a trovare Nuco, che non è la stessa cosa”, dice. È un uomo che preferisce gli uccelli alle persone, che si rifugia in una realtà immaginaria che, però, non ha nulla a che vedere con la follia. Come affronta Nicasio, il nonno di Nuco, il dolore per la perdita del nipote?
“Nicasio affronta il dolore della perdita in modo molto umano: abbraccia una finzione, crea una sua realtà, alla quale adatta le sue abitudini quotidiane e per la quale rinuncia a tutto ciò che mette in discussione questa realtà, a partire dalle relazioni sociali. Questa finzione comporta la negazione di ciò che è accaduto e, di conseguenza, vive come se Nuco non fosse morto e suo nonno potesse parlare e giocare con lui”.
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Nel libro compaiono dieci interruzioni, in cui è il romanzo stesso a parlare. Perché questa scelta narrativa?
“Si tratta di un dispositivo letterario, secondo il quale il testo è consapevole di se stesso e sa che sta sostenendo una narrazione. Interviene con la propria voce per fornire dati supplementari su ciò che viene raccontato, non è d’accordo con alcune decisioni dell’autore e addirittura litiga con lui. I suoi interventi mi sembrano necessari per creare delle pause all’interno di una trama ad alta intensità emotiva, per stabilire dei ponti tra i diversi momenti della storia e per ricordare ai lettori che quello che hanno tra le mani è un libro e non la vita stessa, anche se il libro gioca a essere, o a sembrare, la vita stessa”.
Mariaje, la mamma di Nuco, “oscilla tra dimenticare e ricordare, e in fondo è contenta di non avere un controllo diretto sui propri ricordi”. Come riuscirà a sopravvivere e a conciliare queste due spinte?
“Mariaje è una donna dalla grande capacità di recupero. Non è estranea alla sofferenza, ma cerca di superarla con perseveranza e convinzione. Le sue decisioni sono improntate al pragmatismo. Non è cinica né fredda, ma guarda in faccia la realtà: ha perso l’unico figlio che ha faticato tanto a concepire, ma non è disposta a rinunciare alla maternità e agisce di conseguenza, intraprendendo un percorso pieno di ostacoli”.
“Aver subito una perdita così grande ed essere distrutto dal dolore non giustifica qualunque cosa”. Cosa intende in questo passaggio del libro?
“Non c’è situazione nella vita di un essere umano, per quanto dura o amara possa essere, che giustifichi la soppressione della moralità”.
“Soffrire non serve a niente”. Il suo testo richiama le parole di Cesare Pavese. Questo romanzo parte da una tragedia, attraversa il dolore, eppure lei stesso lo ha definito “un libro di ricostruzione della vita e dell’anima”. In che modo?´
“Bisogna distinguere tra le dichiarazioni dei personaggi, a volte contraddittorie, quasi sempre determinate dalla loro situazione personale, e ciò che l’autore dice del proprio libro nelle interviste. Il romanzo non si conclude con un esplicito messaggio di speranza. Non racconto storie per condurre i lettori a un’interpretazione che prevedo. Quello che noto, negli atteggiamenti e nei pensieri dei personaggi, è un’accettazione della vita e un desiderio indeclinabile di ricostruire in qualche modo ciò che è stato perso o spezzato. In questo senso, non considero Il bambino un romanzo pessimista”.
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Lei ha dichiarato in passato a La Lettura di essere debitore di Albert Camus e della “base morale” del suo umanesimo. Eppure, in questo romanzo afferma di non voler terminare “con un messaggio esplicito, una lezione etica”, quanto di “avere senso, lasciare un graffio in questa o in quella coscienza”.
“Il mio stimolo principale è la descrizione del comportamento umano, sia nella sfera intima sia in quella sociale. Con l’aiuto della letteratura, creo ritratti di persone comuni in contesti geografici e temporali a me familiari. Mi limito a raccontare la vita come la vedo io e, oltre a fornire una prospettiva, una manciata di storie (spero attraenti) e un po’ di arte della parola scritta, non pretendo nulla di più”.
Che capitolo rappresenta Il bambino rispetto alla sua produzione letteraria dedicata alla “Gente basca” e alla sua ricerca di nuovi generi e stili?
“Sono fermamente deciso a continuare la serie ‘Gente basca’, di cui Il bambino è il quarto titolo. La serie sarà composta da romanzi brevi e raccolte di racconti. L’idea è quella di raccontare i destini della gente umile della mia terra, in un’epoca che è stata anche la mia. Voglio sottolineare che in ognuno dei libri mi sforzo di realizzare una sorta di esperimento formale, non per niente, ma perché scrivo con una motivazione particolare quando sono costretto a superare delle difficoltà”.
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Il bambino diventerà una serie prodotta da Netflix con la regia di Mariano Barroso. Per la serie HBO tratta da Patria lei non era intervenuto nella sceneggiatura. In questo caso?
“Non intervengo mai negli adattamenti teatrali o cinematografici delle mie opere. Anzi, questa è l’unica condizione che pongo a sceneggiatori e registi: che lavorino in piena libertà. Naturalmente, ho già ceduto loro i diritti di adattamento perché mi fido. Finora con loro ho avuto ottime esperienze. Dare libertà, d’altra parte, non significa non essere informati sull’andamento del progetto. E, naturalmente, se mi viene chiesta la mia opinione in qualsiasi momento del lavoro, la offro”.
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Qual è lo stato di salute della democrazia in Europa oggi, segnata da tensioni ed estremismi?
“La democrazia è una creazione dell’uomo, a mio avviso una delle più lodevoli, poiché permette quella cosa più rara nella storia: la coesistenza pacifica dei cittadini. Sebbene veda i pericoli a cui la democrazia è attualmente sottoposta in Europa, non credo nemmeno che stia morendo. La democrazia presuppone il dibattito, ed è vero che alcuni discutono in modo rumoroso e offensivo, il che può dare l’impressione che stiamo vivendo sull’orlo della catastrofe”.
E quello della letteratura europea contemporanea? Individua tendenze interessanti, autori che l’hanno colpita?
“Sarò onesto: non lo so. È impossibile leggere tutto ciò che viene pubblicato, nemmeno il meglio. Credo che i critici e i lettori siano in una posizione migliore per sapere dove sta andando la letteratura europea contemporanea rispetto agli scrittori. C’è ancora del talento, non c’è dubbio. E c’è il fatto indiscutibile e altamente positivo dell’inserimento senza limiti delle donne nella creazione letteraria”.
La sua attività letteraria guarda spesso al passato per individuarne le tracce nel presente: partendo dal ricordo personale le sue storie si fanno memoria collettiva. Rispetto al futuro, che cosa teme e cosa, invece, le infonde speranza?
“Il futuro appartiene a chi lo abiterà. Per quanto mi riguarda, mi porterà semplicemente l’esito previsto dalla natura: la morte. Forse le mie opere, o alcune di esse, rimarranno dopo di me, ma prima o poi sarò dimenticato. Tuttavia, non sono un disfattista. Aspiro ancora a meritare un pezzo di futuro”.
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