Esiste, in un futuro non troppo lontano, un mondo in cui essere tristi è vietato per legge. Lo disegna la fumettista svedese Bim Eriksson nella sua graphic novel “Baby Blue”

Chi ha visto l’Inside Out della Pixar, chi ha ascoltato il podcast Le basi e chi ha familiarità con la psicanalisi, avrà interiorizzato come un mantra il comandamento secondo il quale “per funzionare abbiamo bisogno di tutte le emozioni”, comprese tristezza, paura, rabbia e disgusto – che ci piaccia o no.

Eppure esiste, in un futuro non poi così lontano, un mondo in cui il dolore è vietato per legge. Non è permesso soffrire, assecondare la complessità delle proprie emozioni, provare tristezza, rabbia o frustrazione. È permesso, soltanto, sorridere (e, ça va sans dire, obbedire).

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Questo è il mondo disegnato dalla giovane fumettista svedese Bim Eriksson nella sua graphic novel Baby Blue (add editore, traduzione di Alessandro Storti).

A farci entrare in questa distopia della felicità è Betty, triste cameriera di un caffè, in gran conflitto con le sue emozioni e con la società che abita. È grazie a lei che sappiamo che, nel suo Paese, esiste una lunga lista di canzoni censurate, canzoni tristi ovviamente: Liability di Lorde, The end of the world di Sharon Van Etten, Heaven Knows I’m Miserable Now degli Smiths, per dirne alcune.

BABY BLUE Eriksson illustrazione

A controllare che nessuno ascolti questa musica e che ogni persona sorrida, non crei disordine e non esca dagli schemi, è un esercito di guardie omologate e identiche tra loro. A chi non obbedisce al regime viene riservato un trattamento sanitario obbligatorio: iniezioni di siero della felicità, con non pochi effetti collaterali, e cure per risolvere “gravi  ed evidenti disturbi mentali”.

Per dare forma al suo racconto distopico – un po’ orwelliano e certamente in dialogo con Maus, la graphic novel pluripremiata di Art Spiegelman – Bim Eriksson sceglie uno stile grottesco: corpi imponenti, volti senza espressione, maschere che nascondono le reali identità. Non è la bellezza che cerca Eriksson ma, al contrario, sono il disagio e la scomodità. La mano dell’autrice è mossa dal bisogno di far percepire a chi legge tutta l’angoscia di un mondo in cui non si possa piangere, dire “sto male”, affermare la propria fragilità.

“Quando frequentavo la scuola d’arte preparatoria, la nostra tutor ci diceva che non poteva insegnarci a disegnare, ma poteva insegnarci a vedere. Così ho capito che anche ciò che non riusciamo a vedere è un’immagine, è una storia“, racconta Eriksson.

Baby Blue – con la sua inquietudine, le contraddizioni dei personaggi e i dialoghi asciutti ma puntualissimi – non è soltanto una lettura fluida e piena di significato, insieme, ma è anche e soprattutto uno spunto per riflettere su una serie di temi centrali per la nostra società: qual è il ruolo del dolore? Quanto può diventare pericoloso l’imperativo di rimuoverlo a tutti i costi? Qual è la cura che riserviamo alla nostra salute mentale? Cosa consideriamo come devianza e quanto siamo disposti, realmente, a conoscerla ed esercitare l’empatia? Cos’è, davvero, la libertà?

Secondo Baby Blue, la strada verso queste risposte passa attraverso le proprie persone più fidate, attraverso il coraggio di esplorare le proprie profondità e attraverso la forza di interrogarsi sulle regole che guidano il complesso gioco dell’umanità.

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