Malattie terminali, sovraindebitamento, emarginazione urbana, montepremi da capogiro, critica ai reality show e allo strapotere dei mass-media: quali sono le caratteristiche del genere survival? E perché ha così tanto successo? Da “La partita più pericolosa” di Richard Connell a “Il Signore delle mosche” di William Golding, passando per “La lotteria” di Shirley Jackson, “L’uomo in Fuga” di Stephen King e “Hunger Games” di Suzanne Collins, un approfondimento sulle narrazioni che vedono al centro massacri e scontri all’ultimo sangue, per riscoprirci umani oltre la violenza

Quando la lotta per la vita si argomenta a filone narrativo: traendo ispirazione da quegli incontri di pugilato dove gruppi di atleti, alla maniera degli antichi gladiatori, si affrontano gli uni contro gli altri fino a che uno solo rimanga in piedi, la letteratura finzionale Battle Royale (anche detta survival), ben si incardina sul racconto delle principali divergenze moderne, in una complessa commistione di distopia e critica sociale offrendo al pubblico scenari di spettacolo a volte cruenti, ma comunque tutti riconducibili alla medesima affermazione filosofica: che, per ragioni di sopravvivenza, ogni uomo è un lupo per un altro uomo.

“Una volta che un tuo avversario ti attacca con un’arma, non esitare. Altrimenti morirai. Non puoi permetterti di pensarci”, questo avvisa Takami Koushun nel romanzo che ha conferito un nome allo stile, “Non dovresti fidarti troppo delle persone, in questo gioco” (Battle Royale, traduzione di Tito Faraci per Mondadori).

copertina del romanzo battle royale, esempio del genere survival

Una sfida all’ultimo sangue, dunque? Di sicuro, ma soprattutto una perversa scommessa al massacro, indetta da diabolici banditori al solo scopo di generare, negli inconsapevoli partecipanti, istinti predatori i più animaleschi e scellerati.

Malattie terminali, sovraindebitamento, emarginazione urbana, sono queste le diverse motivazioni che spingono i contendenti ad accettare le prove; un montepremi da capogiro e/o la prospettiva della celebrità, ecco invece le straordinarie ricompense attribuite all’unico vincitore (e ultimo superstite).

Ciò detto, e stabilite le regole dei numerosi titoli che già prima del coreano Squid Game – 142 milioni di telespettatori nelle quattro settimane successive al lancio – hanno definito il consolidarsi del successo, quali sono, in sintesi, le matrici letterarie del genere survival?

Inaspettatamente, e senza voler tralasciare le imperdibili pubblicazioni manga dell’Asia Orientale (dall’accademico Kakegurui di Tōru Naomura al fantascientifico Gantz di Hiroya Oku, solo per citarne alcuni), è nelle poche pagine di una novella di inizio novecento che la battaglia reale getta le basi per la sua inarrestabile espansione: siamo nel 1924 quando con La partita più pericolosa, lo scrittore statunitense Richard Connell ci racconta di come, recatosi in Amazzonia per partecipare a una sessione di caccia al giaguaro, il giovane Sanger Rainsford si ritrovi egli stesso braccato dall’organizzatore dell’evento e, come altri prima di lui, venga costretto a inscenare un drammatico “safari all’uomo” al fine di riconquistare la libertà di cui è stato privato.

Tale struttura di narrazione (il capovolgimento della vittima che si fa carnefice, e viceversa), in seguito approfondita in romanzi classici come Il Signore delle mosche di William Golding o La lotteria di Shirley Jackson, verrà poi ulteriormente definita nel primo capitolo de L’Uomo Invisibile (traduzione di Francesco Pacifico, Fandango), l’opera di debutto di Ralph Ellison in cui l’anonimo protagonista, pur di guadagnarsi una borsa di studio presso un collegio per soli ragazzi afroamericani, partecipa a sanguinari scontri fra studenti e il tutto sotto lo sguardo divertito di quei dignitari razzisti che, sulle loro vittorie o sconfitte, puntano il denaro e ne decidono le sorti.

copertina del libro la lotteria di shirley jackson

Quanto invece alle esperienze narrative di epoca contemporanea, oltre al raffinato Cavie di Chuck Palahaniuk, è ne L’uomo in Fuga di Stephen King che il genere Battle Royale si arricchisce di un ulteriore, e imprescindibile, elemento di sotto-trama: la critica ai reality show e allo strapotere dei mass-media; immaginato quasi fosse una video-diretta per aspiranti sicari, il romanzo dell’orrore ben ci interroga su quanto la comunicazione della violenza ci abbia resi assuefatti alla percezione del dolore, e su come ciò condizioni le nostre scelte in fatto di intrattenimento e di propensione culturali.

copertina del romanzo l'uomo in fuga di Stephen King

D’altro canto, è solo con la saga di Suzanne Collins, Hunger Games (traduzione di Simona Brogli, Mondadori) che il genere raggiunge la popolarità di pubblico che ora lo contraddistingue: nel contestualizzare la ribellione dei ceti deboli contro le pressioni della casta forte, non vi è chi non riconosca nella protagonista Katniss Everdeen la concorrente ideale dei grandi romanzi survivalisti; nata in un Distretto disagiato e offertasi per gareggiare nei “giochi della fame” al posto della sorellina Primrose, la coraggiosa eroina diviene portavoce di un vero e proprio movimento di rivolta, teso non solo a liberare i concittadini di Panem dalla dittatura del Presidente Snow, ma soprattutto a risvegliare, nell’opinione comune, quel sentimento di ribellione che tanto dovrebbe unirci nel contrastare gli episodi di discriminazione cui di continuo assistiamo.

copertina del primo libro della saga hunger games, esempio del genere survival

Ed è forse questa, in epilogo di trattazione, la visione di insieme su cui pare opportuno concentrarsi; oggi che il campo di battaglia ha raggiunto non solo l’universo cinematografico ma anche le piattaforme videoludiche e la letteratura per ragazzi (con Alain T. Puysseguir e il suo delizioso Diario di una quasi leggenda a insegnarci i veri valori del gioco di squadra, traduzione di Nicola Jacchia per Magazzini Salani), una lettura autentica del fenomeno survival, libera da pregiudizi e lontana da imbarazzi, può senza dubbio aiutarci in un percorso di riflessione sul nostro ruolo di individui e consumatori consapevoli.

Perché, se l’istinto alla sopraffazione è qualcosa che per sua natura appartiene alla condizione di “essere animali” saperlo riconoscere, e quindi controllare, è ciò che davvero può distinguerci nella nostra qualità di “essere umani”.

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