“Big Time” dell’esordiente Jordan Prosser è un viaggio psichedelico che altera la nostra concezione del tempo, tra musica, autoritarismi e droghe. In un’Australia distopica, Julian Ferryman è un bassista che si ritrova coinvolto nel tentativo di rovesciare il governo. E la chiave sembra essere la sua capacità di vedere il futuro grazie all’uso di “F”, un potente sintetico allucinogeno…

Passato, presente e futuro. Praticamente da sempre, il tempo viene considerato secondo questa tripartizione: ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà. E a guardare bene questa distinzione, ci si rende conto che l’ora, l’adesso, è roba da poco. Che “rispetto alle infinità relative del passato e del futuro, il presente quasi non esiste”.

In Big Time, romanzo d’esordio del regista e sceneggiatore Jordan Prosser (ora pubblicato in Italia da Mattioli 1885 con la traduzione di Sebastiano Pezzani), esiste una droga capace di rendere l’adesso “un posto più grande”. Non ferma il tempo, ma permette a chi la assume di compiere un salto in avanti e vedere il futuro. E non a caso, quella droga si chiama F.

“Inizierai a fare associazioni libere tra forme, disegni, numeri e immagini. Sentirai cose su più livelli e troverai dettagli intricati in oggetti in cui prima non li avresti trovati”.

copertina del romanzo Big Time

Un po’ Philip K. Dick e un po’ Jennifer Egan (come nota anche il Guardian), ma un po’ anche Le porte della percezione di Aldous Huxley: Jordan Prosser racconta un mondo diverso dal nostro, un futuro abbastanza prossimo nel quale alcuni stati si sono staccati per formare la Repubblica Federale dell’Australia Orientale, un’autocrazia (narrativamente simile alle distopie novecentesche) nella quale esiste addirittura un ministero del Decoro interno (nome dal vago richiamo orwelliano abbreviato in DID). E infatti internet è stato sostituito da una sua copia del governo, l’AusNet, la cultura va incontro a molte censure e i cittadini che si oppongono… semplicemente spariscono.

Una frase più di molte scene forse rende al meglio il quadro politico precedente al romanzo e la trasformazione che l’Australia (o parte di essa) ha subito. Un’affermazione del narratore che implicitamente evidenzia la pericolosa velocità con la quale una nazione può diventare un regime: “Le cose andavano bene. Ciò che ora non va bene, qualunque cosa sia, c’era già. È semplicemente diventata legge per tutto il paese”.

In questo contesto la narrazione ha per protagonista Julian Ferryman, bassista nella band degli Acceptables (gli accettabili), di ritorno dalla Colombia. Il suo viaggio, condiviso da lettori e lettrici, è tanto reale quanto psichedelico. Una sorta di catarsi indotta dalla droga, da F, capace di condizionare anche i momenti di lucidità. Perché se è vero che i molti utilizzatori di F vengono lanciati avanti nel tempo di secondi e minuti, be’ Julian è in grado di vedere settimane e mesi futuri.

Proprio questa capacità (nel testo viene spiegato che la durata del viaggio dipende da alcune caratteristiche psicofisiche) trasforma Julian in una figura passiva, che non compie realmente le sue azioni, è la storia che gli dice come comportarsi.

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Ma al di là di ciò, seguire Julian, la band e gli altri personaggi, è un viaggio frenetico e allucinato durante il quale sono molti gli argomenti sui cui lettrici e lettori sono chiamati a riflettere. Dalla memoria al libero arbitrio, dalla creatività alla ribellione artistica (nel libro vengono citati, tra gli altri, i Ramones, i Minutemen, i Clash e Phil Collins), dal destino al senso dell’esistenza di ognuno… Ha ancora senso parlare di arbitrio e di casualità quando un’allucinazione (con una buona probabilità di essere vera) ci mostra quel che faremo e diremo?

E sebbene possa sembrare tanta la carne al fuoco, Prosser ha il merito di aver scritto un romanzo che si prende i suoi tempi (e non è una battuta): i temi sono indagati, alcune domande ricevono risposta e alcuni eventi che finiscono in prima pagina sui giornali australiani (la scoperta stessa di F o la cosiddetta Anomalia, per esempio) vengono descritti in capitoli ad hoc. Una sorta di pausa al ritmo rockeggiante del libro e che mostrano uno spaccato di ciò che accade nel resto del mondo.

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A questo punto, una menzione la merita la voce narrante: Wesley, giornalista al seguito della band e amico di vecchia data di molti personaggi, distrugge completamente la quarta parete e dialoga con chi legge. Lo stile, soprattutto nelle presentazioni di Wes, si fa ancora più cinematografico di quello che è già, e le descrizioni estremamente visive. Ci si potrebbe chiedere come faccia il narratore a conoscere situazioni in cui non è presente… Oppure, possiamo fare affidamento all’epochè e goderci lo spettacolo. A tratti divertente, a tratti doloroso.

La tensione narrativa ruota tutta intorno all’esistenza limitata dall’autocrazia australiana. L’album che la band scrive nelle prime pagine del romanzo (sebbene questa frase possa sembrare semplice, nasconde sottotrame e intrighi) vuole essere dirompente e rivoluzionario, con testi impegnati – magari non bellissimi, come analizza Wesley – ed espliciti. Ma una volta iniziato il tour di presentazione, iniziano anche i guai. Tra posti di blocco, disordini pubblici e alcune morti inaspettate, Julian si ritrova così coinvolto nel tentativo di un gruppo di rivoluzionari di sovvertire l’ordine dello stato.

Vedere avanti nel tempo, vedere esattamente quello che accade nel futuro, sembra essere la chiave per ottenere non la libertà (o almeno subito), ma il potere di coinvolgere e attrarre persone. Avere una forza comunicativa degna di una rockstar – o di un profeta – con cui poi far scaturire “un golpe incruento. Un golpe a sorpresa“.

Chi meglio di una band da disco di platino avrebbe potuto infatti “spargere i semi del dissenso“? Ma così non accade e Big Time si rivela essere un romanzo fantascientifico, filosofico e pieno di suspense nel quale la musica (come istituzione culturale) mantiene per molti capitoli un ruolo centrale.

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Fotografia header: Jordan Prosser, foto di Sarah Walker

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