Jennifer Egan è una delle scrittrici più importanti degli ultimi decenni. Ha vinto il premio Pulitzer per “Il tempo è un bastardo” nel 2011 e ha scritto alcuni dei testi più capaci di mettere in luce le tensioni della nostra cultura, in un continuo sperimentare sulle forme e sui contenuti. Il suo ultimo romanzo è “Manhattan beach”. – L’approfondimento sui suoi libri

Jennifer Egan è davvero qualcuno? Non qualcuno di importante. Quello è facile: sì. È una delle più importanti scrittrici viventi; ha vinto il premio Pulitzer nel 2011 per Il tempo è un bastardo (minimum fax, traduzione di M. Colombo), un romanzo che non è propriamente un romanzo, nel senso che è costituito da tredici racconti con al centro un personaggio e uno stile diverso, ma così profondamente interconnessi da costituire un tutt’uno: una specie di meditazione proustiana sullo scorrere del tempo e il rock ispirato, per l’appunto, da Proust e dai Soprano; il Time, sempre nel 2011, la considerava una delle cento persone più influenti del mondo; dal 2013 gli accademici si riuniscono a parlare dei suoi libri; dal 2018 presiede il PEN American Center, una delle istituzioni letterarie più importanti del mondo.

jennifer egan

S’intende se è davvero qualcuno, come se lo chiedono i suoi personaggi: come ne La fortezza (minimum fax, traduzione di M. Testa) – un romanzo gotico che è anche una riflessione sui fantasmi della nostra società virtuale – dove il protagonista, Danny si chiede allucinato: “chi è questo tizio?” di fronte allo specchio. Se lo chiedono i personaggi de Il tempo è un bastardo, Alex capisce che Scotty Haussman: “non esisteva. Era solo una parola sotto forma di essere umano: un guscio la cui essenza è svanita”. Così, Charlotte Swenson, modella sfigurata al centro di Guardami (minimum fax, traduzione di M. Testa e M. Colombo) che dopo la chirurgia ricostruttiva non è più se stessa. E il narratore se lo chiede esplicitamente di Stuart, uno dei personaggi dell’antologia di racconti Emerald city, se è davvero qualcuno.

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Sembra scontato, ma leggendo i suoi libri, anche no.

Dall’esordio, La figlia dei fiori (Piemme, traduzione di V. D’Antonio), Jennifer Egan non ha fatto altro che indagare le miopie che ci fanno esistere. Il rapporto che abbiamo con le immagini; le implicazioni metaforiche delle tecnologie, capaci di cambiare qualitativamente il  modo di essere umani; il nostro narcisismo endemico che ci fa perdere in una stanza degli specchi, come in Guardami; la dispersione dei rapporti umani di fronte al loro surrogato virtuale; il rapporto tra realtà e finzione, in un tempo in cui “tutto sembrava in un certo senso falso”.

“Il mio lavoro” – si legge in La fortezza – “è mostrarvi una porta che potete aprire”.

Le finzioni sono più reali della realtà e sono quanto fa sembrare reali le cose; ma al centro c’è un vuoto, un nocciolo che non si raggiunge. “Identità” nel futuro apocalittico di una porzione del Il tempo è un bastardo è una delle parole-involucro – parole svuotate del loro significato, ridotte a gusci vuoti: come “amico”, “reale”, “storia”, “cambiamento”, “democrazia”, “America”, ecc. –  che, gli umani non sanno più utilizzare senza la mediazione delle virgolette. Nuovi esseri umani, noi, che intrattengono coi vecchi lo stesso rapporto che c’è tra i vestiti industriali e quelli cuciti a mano.

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Questa, dunque, Jennifer Egan. Jennifer Egan, classe ’62, che ha vissuto in un triangolo geografico che include tutta l’America. Proprio Jennifer Egan, nata a Chicago, origini nel Midwest. Si è trasferita a sette anni a San Francisco, in una California che si era appena dimenticata della controcultura, senza lasciarsene alle spalle alcuni fantasmi; le droghe, per dirne una. Jennifer Egan che ha iniziato a scrivere quando, durante un anno sabbatico in Europa, comincia a soffrire di attacchi di panico (“il Terrore”) e a documentarne i dettagli; credeva fosse per l’LSD. Jennifer Egan che, in Europa, fa anche la modella, finendo nei cataloghi di Parigi e Tokyo, da qui forse l’interesse per le immagini, da qui la modella di Guardami. La stessa Jennifer Egan che, se a San Francisco non ha potuto fare la Figlia dei Fiori, ha però conosciuto Steve Jobs. Sono stati insieme un anno. Non sapeva chi fosse, sebbene lui fosse già famoso; lo prendeva in giro per la peculiare capacità da Silicon Valley di combinare la filosofia buddista con la vocazione a vendere computer. Ha rifiutato la sua proposta di matrimonio, ma era una formalità. Jobs lo sapeva: non era il tipo da essere semplicemente la moglie di qualcuno. Però a Cambridge ha conosciuto e s’è poi sposata con David Herksovitz. Ora hanno due figli, Raoul e Manu.

Nel ’87 quella Jennifer Egan si trasferisce a New York, dove finisce per fare la ghost writer di Aline Griffith, sessantacinquenne ex-spia Americana, contessa di Romanones; nonostante la contessa “come fanno le contesse, non riusciva a distinguere la differenza tra impiegata e serva”, come si legge in un profilo della Egan pubblicato da Alexandra Schwartz sul New Yorker. A New York ha continuato a vivere. Lì è ambientato il suo ultimo romanzo, Manhattan Beach (Mondadori, traduzione di G. Granato).

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Jennifer Egan, scrittrice. Scrittrice inclassificabile: esordisce negli stessi anni Novanta di Underworld, di American Psycho e di Infinite Jest; prendendo un po’ da ognuno (le strutture complesse, la prosa limpida, la stanchezza verso l’ironia), ma non assomigliando a nessuno.

Jennifer Egan, una tacca più avanti dei postmodernisti, post-post-moderna. Con il suo insistere sulla società dei media, sulle immagini che alterano il rapporto con la finzione, con la sua mescolanza tra alto e basso, con i personaggi affetti da dipendenza da internet e da quella dallo sguardo e proprio altrui; con le sue trame specchio di un mondo frammentato dove tutto succede tra gli spazi bianchi e le ellissi; ma, anche, dove le tecniche metaletterarie sono accompagnate dall’affezione verso i personaggi.

Jennifer Egan, per alcuni profetica: in Guardami s’immaginava un proto-social network, in cui le persone condividevano la loro vita, “Ordinary People”, finendo per non distinguere tra il sé mostrato online e quello reale; era il 2001. Ne Il tempo è un bastardo, i bambini sono i più avvezzi a usare un dispositivo tecnologico touch screen, lo Starfish.

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Jennifer Egan, quanto resta dell’avanguardia, con la sua continua sperimentazione in forme e strutture: ne Il tempo è un bastardo un capitolo è scritto in Power Point. La scatola Nera, una spy story distopica, in cui il corpo di Lulu è modificato per diventare uno strumento di registrazione (minimum fax, traduzione M. Colombo), è strutturato in sequenze di 140 caratteri; cioè in tweet.

Questa Jennifer Egan – che scriveva Tim Martin sul Telegraph “penetra nella cultura contemporanea come uno scaffale di Delilli” –, dunque, fedele a se stessa, alla sua identità, quale tendenza sarà capace di prevedere?, nel nostro tempo così eganiano: tra intelligenze artificiali, fake news, macchine che si guidano da sole, diffusione capillare dei social network, cosa scriverà?

Un bel romanzone storico. Documentatissimo. Tradizionale. “Vittoriano”.

Proprio così. O forse no.

Manhattan Beach è un romanzo su cui Egan ha lavorato – facendo ricerche storiche, interviste – per più di un decennio. Dopo l’undici settembre poteva avvertire la fine di un qualcosa, il primato sul mondo degli Stati Uniti, e ha sentito il bisogno di capire, invece, dov’era iniziato. In quel periodo che coincide con la fine della depressione economica e l’ingresso degli Usa nella Seconda Guerra mondiale, quando si ridefiniscono le strutture del mondo per creare il nostro presente.

Nella prima scena, 1934, troviamo l’undicenne Anna Keringan accompagnare il padre Eddie, portaborse del sindacato, nella casa del gangster Dexter Styles, a Manhattan Beach, Brooklyn. Eddie e la famiglia Kerringan hanno vissuto giorni migliori: prima il padre era un attore di teatro, ma dopo aver ceduto alle tentazioni della borsa nei Roaring Twenties e perso rapidamente tutto nella crisi, ora si trova costretto a chiedere favori alla mafia per far fronte alle esigenze della secondogenita, Lydia, nata con delle gravi disabilità, che ha bisogno di una sedia speciale – e naturalmente costosissima. Le loro vite si intrecceranno. Da lì un salto temporale: è il 1942, gli Usa sono appena entrati in guerra, il mondo cambia vorticosamente, intanto Eddie è scomparso senza lasciare traccia e ora è Anna che deve occuparsi della famiglia. Gli uomini sono al fronte, quindi cerca di farsi strada in un mondo ferocemente maschile come quello dei cantieri navali newyorchesi riuscendo a diventare la prima donna palombaro, immergendosi in un oceano che è un “paesaggio di oggetti smarriti”. Come appunto, il padre, nella cui ricerca si immerge Anna finendo per reincontrare, in un nightclub, Dexter.

Manhattan Beach è certamente un romanzo storico tradizionale; di un realismo sociale accuratissimo. Nel descrivere la condizione femminile, la vita dei porti newyorchesi, la stessa città, l’economia e la vita durante la guerra (“La sua era una vita da guerra. La guerra era la sua vita”). E la mafia, che comincia a intersecarsi con l’alta società, i nightclub. La vita dai banchieri ai poveracci.

Ma non solo. Come in Guardami, forse, Jennifer Egan ha voluto scrivere un romanzo in cui “le connessioni fossero percepite, piuttosto che capite”. Egan ha sempre piegato le gabbie dei generi per i suoi discorsi, dal romanzo di formazione e il road trip ne La figlia dei fiori, al romanzo gotico nella La fortezza, finanche, ovviamente, ai tweet ne La scatola Nera. Così, il romanzo storico è un canovaccio, lo sfondo su cui si innesta una mescolanza di generi diversi: il dramma domestico della famiglia Kerringan, il noir con la risoluzione del crimine, una storia di sopravvivenza di mare; delle narrazioni che sembrano diversissime. “Il mio obiettivo” – dichiara proprio a partire da Manhattan Beach – “è sempre di provare a far coesistere delle cose incompatibili; se qualcosa può essere allo stesso tempo se stessa e il suo contrario, lì è quando sono più felice”.

E cosa indagano stavolta le sue sperimentazioni?

Per Meghan O’Rouke, che ne ha scritto sul Guardian, Manhattan Beach è un romanzo metafisico nella sua natura. Sul vasto oceano, all’interno del quale le storie dei diversi personaggi convergono proprio nelle svolte: sia Eddie, sia Anna, che immergendosi nel mare riorganizza la sua identità, sia Dexter, a cui il mare avvicina a qualcosa di simile a un’epifania morale, fino anche a Lydia, che lo conoscerà la prima volta. Un mare, che può essere sé stesso e anche l’immagine dell’immersione nella profondità (Anna, è un palombaro), o anche quel nocciolo tutto eganiano che non possiamo raggiungere e comprendere. Ma anche una riflessione su come operano le strutture di potere – nelle tensioni di classe, di etnia e di genere – nelle loro invisibilità. Anna si scontra col potere degli uomini, in una società maschilista. Così come Dexter, che per quanto possa sforzarsi di voler essere “una parte onesta di quanto viene dopo”, è pur sempre un emigrato italiano che ha cambiato il suo nome. Fa parte di un mondo di ombre. E continuerà a esserlo se: “i Berringer – la famiglia del suo padrino – andavano all’opera con il cilindro quando i parenti di Dexter si accoppiavano ancora in campagna dietro le balle di fieno”. Strutture che sono anche illusioni, narrazioni che funzionano perché ci viviamo dentro.

E ancora, come ne Il tempo è un bastardo, c’è un vuoto al centro della trama (il vuoto degli anni che separano il primo incontro con Eddie dal presente bellico di Anna, il vuoto di conoscenza sulla sorta del padre) che motiva le azioni dei personaggi, limita le loro prospettive, e limita anche la loro possibilità di comprendere la realtà, se non da un punto di vista inevitabilmente monco. Ma questo stesso vuoto connette tutto: le vite dei personaggi, le loro azioni, i loro motivi a un livello profondo, così come ne Il tempo è un bastardo, le vicende umane si rincorrevano nel tempo (dagli anni Settanta al futuro) e allo spazio (da New York ai bassifondi di Napoli) tratteggiando le connessioni di questa umanità.

Non si sa bene se Jennifer Egan sia qualcuno, ma per quanto cambi, è sempre Jennifer Egan.

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