“Bohémien minori” dell’irlandese Eimear McBride racconta la storia d’amore tra una giovane irlandese del Nord, appena arrivata a Londra, e un uomo vent’anni più grande. Lui e lei sono entrambi attori, ed è sempre dal teatro che viene l’autrice, che scrive un romanzo in cui la narrazione forza la sintassi, spezzandola, dandole il ritmo non del parlato, ma del pensiero stesso. Molti hanno paragonato la sua scrittura a quella di Joyce, ma con un respiro ancora diverso: tra la sperimentazione linguistica di Ali Smith e la costruzione psicologica di Sally Rooney, McBride trova una terza via, dove gli spazi tra le parole acquistano significato… – L’approfondimento

Una giovane irlandese del Nord arriva a Londra a metà degli Novanta, per frequentare una prestigiosa scuola di recitazione. Tra lo squallore delle stanze affittate, le strade sporche ma vitali di Camden e le uscite alcoliche con i compagni di corso, lei conosce lui, un attore professionista vent’anni più grande. Seguendo la scansione dei trimestri accademici, i due si salutano, si ritrovano, si innamorano, rivelando pian piano pezzetti della loro storia personale, prima che diventi la loro complicata storia comune.

Bohémien minori, romanzo dell’autrice irlandese Eimear McBride (nella foto di JMA Photography, ndr), premiatissimo in patria e pubblicato in Italia da La nave di Teseo con la traduzione di Tiziana Lo Porto, è un racconto d’amore che fluisce al di fuori del canone, prendendo la forma dell’animo dei personaggi, come il materasso di casa di lui, sfondato da tutti i corpi che ci hanno dormito sopra.

Bohémien minori - McBride

Ogni attrice o attore è famigliare con gli esercizi di laboratorio che richiedono di scavare dentro di sé e riportare alla luce le emozioni utili, ripulite dal coinvolgimento personale, utilizzabili per il pubblico. Nel teatro il linguaggio ha una sua specificità, che non ha a che fare con la bellezza delle parole in sé ma con l’urgenza di comunicare. Lui e lei sono entrambi attori, ed è sempre dal teatro che viene Eimear McBride, che scrive un romanzo in cui la narrazione forza la sintassi, spezzandola, dandole il ritmo non del parlato, ma del pensiero stesso. I sentimenti che l’educazione, la religione e i costrutti sociali obbligano a tenere sotto controllo sono espressi senza intermediazione, a volte solo con una parola, nel momento in cui nascono.

Le frasi si interrompono come al sopraggiungere di un ricordo, di un’intuizione improvvisa, di una battuta detta dall’altro. Avviene tutto fluidamente, perché è così che funziona la mente umana, sa correre contemporaneamente su binari diversi.

Molti hanno paragonato la scrittura di McBride a quella di Joyce, ma con un respiro ancora diverso. Tra la sperimentazione linguistica di Ali Smith e la costruzione psicologica di Sally Rooney, McBride trova una terza via, dove gli spazi tra le parole acquistano significato.

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In questo universo dove tutte le sensazioni sono riportate al corpo, come nelle prove di uno spettacolo, la giovane protagonista scopre il proprio. Ha lasciato l’Irlanda, un paese ancora in conflitto, povero e fortemente influenzato dal cattolicesimo: tra la demonizzazione della sessualità che ha assorbito fin da piccola e i traumi passati, lei arriva a Londra ancora paralizzata. L’incontro con lui coincide con l’incontro di una città che accoglie senza giudicare – la sua affittacamere la considera una città “senza Dio” – e con la possibilità di assecondare, finalmente, ogni desiderio. Gradualmente fa pace con il passato, che corrisponde anche alle regole con cui è cresciuta: “E nonostante l’assenza di Dio, il resto della settimana resta invariato”.

La Londra che emerge dalle pagine di McBride è una città sudicia, su di giri, dove si possono testare i propri limiti senza rete di salvataggio. È uno spazio crudele in cui ci si può ritrovare ben presto sul fondo, ma che sa regalare inaspettata quiete, all’ombra di un albero di Hampstead Heath o su un ponte di notte, quando si accendono i lampioni. Lei e lui, ognuno nel proprio tempo, si gettano nella vita cittadina, si sporcano e si ripuliscono.

Come nel precedente romanzo di McBride, Una ragazza lasciata a metà (Safarà Editore, traduzione di Riccardo Duranti), i personaggi cominciano senza un nome. Da una parte questo restituisce l’immediatezza delle situazioni raccontate, sono tutti lì, in quel momento; dall’altra li fossilizza in un ruolo. Lui, lei, il Coinquilino, la Moglie del coinquilino: per loro, però, c’è la speranza della crescita. Uno dopo l’altro, iniziano ad acquistare una loro identità. Si riappropriano del loro passato con le sue brutture, lo affrontano e si guadagnano un nome. E nel triangolo di Camden tra Kentish Town Road e Chalk Farm si può anche trovare il perdono.

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