“Negli anni, non solo ho ripensato spesso a ‘La bella estate’, ma l’ho anche riletto. È uno di quei rari libri domestici e forestieri allo stesso tempo, è la canzone che non stanca dopo tutte le volte che l’hai ascoltata, e rinnova ancora un senso di meraviglia…”. Su ilLibraio.it la prima parte dell’introduzione firmata dalla scrittrice e traduttrice Claudia Durastanti alla nuova edizione Einaudi del romanzo breve di Cesare Pavese (con “uno degli incipit piú belli della letteratura italiana, o forse in qualsiasi lingua io conosca…”)

Una ragazza che non conosce l’amore

© 2021 Claudia Durastanti

 

Un giorno ho incontrato una ragazza che voleva girare un documentario ambientato nell’arco di una settimana ad agosto. Una settimana d’agosto in un paesino del sud, l’unica in cui il paese è davvero vivo, quando viene chiamata qualche band fuori moda a cantare e le ragazze si vestono ancora a festa; la settimana in cui arrivano gli sconosciuti e tornano gli stranieri, prima che tutto torni a rapprendersi di solitudine.

Quando me lo ha raccontato, ho pensato a La bella estate di Cesare Pavese.

Qualche anno prima, su un autobus che scorreva nel centro di Londra, ho visto salire un gruppo di ragazzine pronte per gli ultimi giorni di scuola. In realtà prima ancora di vederle ne ho sentito le voci rumorose e acide. Gli altri passeggeri le guardavano con fastidio, e poi una di loro ha detto «I’m going to be someone this summer / Quest’estate sarò qualcuno», e io l’ho adorata per quel desiderio così semplice, prima dell’imminente pausa estiva.

Anche quella volta ho pensato a La bella estate di Cesare Pavese.

cesare pavese la bella estate

Da qualche parte nei miei anni da donna adulta trascorsi tra una città o l’altra, mi è venuta in mente l’immagine di due amiche che passeggiano lungo una strada in cui tutto odora di asfalto e menta, e si fermano in un sexy shop automatico per ridere degli articoli in vendita. Un giorno in un romanzo le avrei descritte così: «Davanti a una chiesa illuminata dai lampioni ambrati mi è venuta voglia di abbracciare la ballerina, di annusare i suoi capelli che puzzavano di tabacco e sentirmi come quando andavamo tutte insieme a ordinare un panino nei bar frequentati dagli autisti che si offrivano di pagare il conto, e noi ridevamo a voce alta per infastidire la clientela notturna, scoordinate nei movimenti e senza stile, ma ancora giovani, e corrotte, e bellissime».

Anche in quel momento, io ho pensato a La bella estate.

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La vita che si illumina e lampeggia solo una stagione all’anno, il desiderio di importanza dell’adolescenza, ridere del sesso come disincanto ed esorcismo quando non si sa ancora bene come farlo o lo si è imparato troppo bene, e ridendo si ricerca una specie di verginità: ognuna di queste intuizioni, ognuno di questi sentimenti, precipita furiosamente nei miei ricordi de La bella estate.

Nelle mie intenzioni, quando ho descritto quelle ragazze davanti a un sexy shop, l’ho fatto proprio come omaggio a uno degli incipit piú belli della letteratura italiana, o forse in qualsiasi lingua io conosca: «A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e attraversare la strada, per diventare come matte, e tutto era cosí bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravamo ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, o magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare camminare fino ai prati e fin dietro le colline».

La bella estate inizia così. Con un’immagine infestante, rampicante, che ti cresce addosso.

Qualcosa che negli anni si complica con tutto quello che puoi dire, ormai, su come finiscono le feste.

E quindi so quanto spesso ho pensato a questo romanzo breve scritto in primavera ma che parla di un’estate di ritorno, e alle parole che Cesare Pavese usa per irretirci nella storia dell’amicizia sensuale e ferita di Ginia «la ragazza di famiglia» e Amelia la modella dei pittori, durante un’adolescenza che si ripete sempre uguale, prima di esplodere nel corpo e renderle irriconoscibili a loro stesse.

So quanta di quella malinconia faceva già parte del mio modo di pensare e di sentire il rapporto con l’arte, di vivere gli innamoramenti brevi e interrotti per chi non voleva essere né operaio né borghese. Il mio modo di attraversare una città, di confondermi nei sentimenti per un’amica, e in quelli conflittuali per la classe sociale superiore, cristallizzata e distante: La bella estate in questo senso è un libro fraterno, che accompagna la protagonista in una parentesi di cambiamento, e non a caso si basa sull’assenza del fratello di Ginia, un operaio che lavora di notte e di giorno dorme. È lo scrittore a inserirsi in quest’assenza e a rimediare a un vuoto, perché è vero che spesso i suoi personaggi sono metaforicamente orfani e sbandano fieri e selvaggi nello sradicamento, ma sempre torna la malinconia di una famiglia che non può farsi, di un legame che non può compiersi. L’amicizia a volte è un rimedio e a volte qualcosa che avvelena ancora di più la percezione di un legame mancato.

C’è poi il tema della sessualità esibita, magari anche a pagamento: quando facevo ricerche sulla rappresentazione del sex work nel romanzo italiano, il pensiero automatico è andato subito alle prostitute e alle ballerine di Un amore di Dino Buzzati, ma in quel caso mancava qualcosa che venisse sentito «dentro», che non fosse tanto una proiezione dello sguardo di un uomo ossessionato. Tramite la figura di Amelia ne La bella estate invece, quel «dentro» ritorna, come qualcosa di clandestino e allo stesso tempo anche «naturalizzato», come lo sono tanti istinti del corpo secondo l’autore. Pavese non cerca mai veramente lo scandalo; pare che il vero scandalo sia innamorarsi, non vendersi, qualcosa di ammissibile e possibile in tutta la sua poetica, ma che rinnova un’oscenità interiore. L’aspetto piú seducente di Amelia è che questa oscenità la possiede: piú che un fatto moderno o radicale per un romanzo ambientato negli anni Trenta, è un fatto radicale sempre – la possibilità di decidere per sé, e di convivere con la nausea e il desiderio che questa scelta comporta.

Capita, una volta a settimana, che io parli di cosa significa essere stata una ragazza frustrata e povera di mondo, e di come sia diventata una persona piú sofisticata e mi ritrovi a interpretare il ruolo di una donna. Queste conversazioni vertono spesso sull’oscenità interiore e il senso di possesso delle mie azioni. Sono un tentativo di resuscitare le soglie che ci segnano nella vita per attraversarle ancora, e chiedersi: e se questa volta farò meglio, se questa volta capisco davvero? La durata di queste sedute è breve; la persona che le conduce si interrompe quando meno me lo aspetto, fa parte del gioco, e io rimango tradita. E cosí mi chiedo qual è stata la funzione della brevità nella letteratura per me. Mi sono mai sentita tradita da una scrittura che non andava più a fondo? La bella estate non è forse un romanzo sintetico che a un certo punto si interrompe, in cui conta attraversare ma non dire dove si è arrivati?

Se ci penso, le autrici e gli autori che ho sempre considerato magistrali, da Joan Didion a Joseph Conrad a Cesare Pavese, sono stati amanti del romanzo breve. Didion e Pavese hanno usato una lingua tersa e disincantata, qualche volta con il verso poetico dentro, appena accennato, mentre Conrad ha usato una lingua piú lenta, per entrare nel tempo logico del soggetto. Il contrasto tra questa discesa nel tempo del soggetto e la forma breve in cui avviene ha reso le loro scritture non tanto incomplete quanto fantasmatiche a tratti. Non a caso Lacan sosteneva che la seduta breve serve a far venire alla luce i fantasmi, in un intervallo di tempo in cui magari quella persona sarebbe rimasta volentieri a parlare di noiosissime speculazioni sull’arte di Dostoevskij.

Pavese non ha tempo per queste speculazioni, men che meno ne La bella estate, e consegnando le sue protagoniste alla forma breve, ci lascia appunto con dei fantasmi, in una specie di sviluppo arrestato. Una lenta discesa in un sentimento, prima che si spenga la luce, e lo scrittore vada via.

E a noi cosa resta? Resta l’impero dell’adolescenza, quella fusione di esperienza, intimità e di memoria. Resta l’illusione del possesso di sé, che a volte fa sentire timide, e altre furiose.

Negli anni, non solo ho ripensato spesso a La bella estate, ma l’ho anche riletto. È uno di quei rari libri domestici e forestieri allo stesso tempo, è la canzone che non stanca dopo tutte le volte che l’hai ascoltata, e rinnova ancora un senso di meraviglia. Ho confrontato le sottolineature dei miei vent’anni con quelle dei trenta, ne trovo altre inaspettate ora che mi avvicino ai quaranta. Tramite queste sfumature di colore e di segni sotto le parole, ricostruisco la mappa della ragazza che sono stata. E mi chiedo cosa mi incantasse allora, e cosa mi rapisce ancora. E penso sia questo: la voglia di riattraversare, senza sapere dove si va a finire quando la festa finisce e arriva una malattia come ad Amelia, un’infezione nel sangue di origine conosciuta, ma non per questo meno spaventosa.

Pavese porta via nel tempo, e fa tornare la voglia.

Ma pur sapendo tutte queste cose, non so a cosa pensava Pavese quando scriveva La belle estate. Che tipo di «ragazza» è stato Cesare Pavese?

(continua in libreria…)

L’AUTRICE – Claudia Durastanti (Brooklyn, 1984) è scrittrice e traduttrice. Il suo romanzo d’esordio Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra (Marsilio, 2010) ha vinto il Premio Mondello Giovani; nel 2013 ha pubblicato, sempre con Marsilio, A Chloe, per le ragioni sbagliate, e nel 2016 Cleopatra va in prigione (minumum fax). Il suo ultimo libro è La straniera (La Nave di Teseo, 2019). Alla pagina dell’autrice i suoi articoli per ilLibraio.it

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