La riflessione della scrittrice Giusi Marchetta su ilLibraio.it parte da tre film di cui molto si è detto e che hanno diversi punti in comune (“Tre manifesti a Ebbing, Missouri”, “Manchester by the sea” e “Nebraska”) e si sofferma sul modo, nuovo, in cui vengono raccontate l’universalità della provincia e la sua umanità, con un numero maggiore di sfumature rispetto al passato. Si fa poi un confronto con le serie tv e le pellicole che descrivono l’alienazione forzata nelle grandi città, in cui si cerca una comunità di appartenenza

Negli ultimi anni tre grandi film il cui titolo rimanda al nome di un posto ci hanno ricordato come si possa raccontare storie di persone comuni, ambientate in luoghi sperduti e al tempo stesso per niente esotici, rendendole indimenticabili.

Il primo, più recente, Tre manifesti a Ebbing, Missouri di Martin McDonagh è ambientato in una cittadina in cui tutti si chiamano col nome di battesimo e la vita è scandita da un ritmo comune fatto di serate al bar a giocare a biliardo. Ambientato nel cuore dell’America che conserva ancora un’abitudine al razzismo ma lo pratica come una vecchia tradizione da cui dicono sia bene prendere le distanze, ruota attorno a una donna, Mildred, la cui figlia, violentata e uccisa, non ha ancora trovato giustizia. I tre manifesti sulla provinciale che accusano lo sceriffo di non lavorare bene, la trovata di Mildred per dare una spinta alle indagini, rappresentano per questo sfondo un coraggioso sasso lanciato in uno stagno apparentemente tranquillo.

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Manchester by the sea di Kenneth Lonergan, premiato con l’Oscar come migliore sceneggiatura nel 2016, prende le mosse a Boston per tornare in riva all’oceano Atlantico, in una graziosa cittadina del Massachusetts, da dove Lee, il protagonista, era fuggito anni prima, vittima di un dolore troppo grande per essere affrontato.

Infine, Nebraska di Alexander Payne, col suo suggestivo bianco e nero, ha eletto ad ambientazione una parte degli Stati Uniti che va dal Montana al cuore del Paese. Il pretesto dell’azione è geniale: Woody Grant, vecchio padre di famiglia alcolizzato, riceve il classico coupon che lo dichiara vincitore di un milione di dollari da riscattare in cambio di un abbonamento a una rivista. Poco lucido, l’uomo decide di andare a riscuotere il premio promesso e toccherà al figlio David accompagnarlo perché, sebbene tra mille sensi di colpa, non vuole che il padre rinunci a quest’ultima illusione.

Non c’è dubbio che il punto di forza di tutte e tre le pellicole sia il soggetto e la conseguente sceneggiatura. Le esistenze dei protagonisti sono all’apparenza banali: non hanno attorno una rete sociale da sitcom, né hobby particolari o lavori fantastici. Al contrario: hanno un’attività che chiunque potrebbe svolgere e non hanno rapporti idilliaci con chi li circonda.

In compenso quello che vivono nella propria interiorità è estremamente complesso: Mildred si sente in colpa per la morte della figlia ed è convinta che troverà pace solo se farà arrestare il colpevole; Lee sta cercando di sopravvivere a un atroce passato nascondendosi alla vita, impegnando il giorno in un lavoro che non gli importa fino ad arrivare a sera e ricominciando il giorno dopo; David, infine, è pronto a mettere da parte il rancore per un’infanzia segnata dall’alcolismo paterno pur di regalare all’anziano genitore la realizzazione di un sogno. Si tratta di un’umanità sfaccettata, che nel corso del film presenta un’evoluzione notevole e ben rappresentata. Né buoni, né tremendi, questi personaggi risplendono grazie al susseguirsi degli eventi che li riguardano, sia che portino avanti l’azione come nel caso di Mildred che decide di provocare lo sceriffo con i manifesti, sia che la subiscano, come David che è costretto a tornare a casa perché suo fratello è morto e deve occuparsi del nipote sedicenne. La perfezione di queste trame è evidente nel modo in cui si costruiscono attorno al personaggio e gli consentono di apparire con una profondità straordinaria.

Ma questo meccanismo classico nel cinema si serve in particolare in questi tre film anche dello fondo della provincia americana.

Questa non certo è una novità: la chiusura del microcosmo provinciale, i pregiudizi del paese, l’impossibilità di sfuggire alla propria identità rimanendo nel luogo in cui si è nati, sono tutti elementi già trattati e anzi, utilizzati dagli sceneggiatori, proprio per costruire delle trame particolarmente claustrofobiche.

La novità è che questa provincia viene raccontata con un numero maggiore di sfumature: non si risolve più nella gabbia a cui si cerca di sfuggire o nello sguardo moralista dei vicini costantemente puntato addosso. In qualche modo il cuore profondo dell’Idaho, del Missouri o del Nebraska diventano l’unico posto in cui potrebbe concludersi il film e la rete dei rapporti che legano i protagonisti ai cugini picchiatori, al poliziotto razzista, al prete del paese, all’ex moglie che non si vede da anni, rappresenta la vera storia da raccontare. Più che uno sfondo, queste cittadine diventano un altro personaggio con una personalità, un modo di essere, quasi un odore proprio.

La grande città, con la sua alienazione forzata, pare isolare i personaggi delle proprie storie fin dal principio nei film e nelle serie televisive. Soprattutto in televisione, la ricerca di una comunità di appartenenza è un leit motiv comune nelle comedy e nei drama ambientati in città: da Friends ad How I met your mother la risposta alla solitudine e alla difficoltà dell’essere adulti è sempre nel gruppo di amici che ci si è scelti. Nelle storie ambientate in provincia invece la comunità c’è già: non l’hai scelta e può essere il più grande dei tuoi problemi, o, per infelice che sia, la loro soluzione.

C’è una storia che vale la pena raccontare dunque e questa storia sta avvenendo in un paese con pochi abitanti, in una cittadina di mare o in un villaggio circondato dal deserto o dalle grandi pianure. È una storia che parte da lì e può finire in un altro stato o raccontare un dramma consumato dall’altra parte del mondo. Per quanto lo desideri, il suo protagonista non è mai solo se non quando è unicamente circondato dal paesaggio di questa provincia. Lo sfondo è sempre un orizzonte: quello del mare, del deserto o dei campi attraversati da una strada che spacca l’America a metà. Poi, d’un tratto, accanto a questo protagonista arriva qualcuno che non si è scelto e che appartiene a questo stesso orizzonte; è la persona meno adatta a salvarlo e in qualche caso è parte del problema. Insieme i due trovano una soluzione sbagliata, temporanea, l’unica veramente possibile ed è proprio questa incompleta forma di catarsi a far brillare questi film, a farci venire il sospetto che qualcosa di grande stia succedendo lontano da noi, nei posti che abbiamo lasciato e a cui pensiamo ogni tanto con il sollievo di chi è riuscito a scappare.

 

L’AUTRICE – Giusi Marchetta, nata a Milano nel 1982, è cresciuta a Caserta, poi si è trasferita a Napoli. Oggi vive a Torino dove è insegnante. Per Terre di Mezzo ha pubblicato le raccolte di racconti Dai un bacio a chi vuoi tu (2008), con la quale ha vinto il Premio Calvino, e Napoli ore 11 (2010). Il suo primo romanzo, L’iguana non vuole, è stato pubblicato nel 2011 da Rizzoli. Nel 2015 è uscito, per Einaudi, Lettori si cresce. Il suo nuovo romanzo, Dove sei stata, è in via di pubblicazione per Rizzoli.
Qui tutti gli articoli scritti da Giusi Marchetta per ilLibraio.it.

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