“La pelle del mondo” è un romanzo che esplora il confine incerto tra corpo e identità, tra natura e macchina. A firmarlo è un collettivo, Montag, composto da Niccolò Monti, Lorenzo Rossi Mandatori e Luca Tognocchi. Tutto è nato, come raccontano loro stessi su ilLibraio.it, nel marzo 2020, in pieno lockdown. La loro riflessione sulla scrittura collettiva (e simultanea): “Abbiamo capito che volevamo superare la voce autoriale, l’io individualista e tutta la sua filosofia…”
Dov’eravamo?
Al computer, tre computer diversi, tutti i giorni circa a mezzogiorno.
E quand’era?
Perdonateci, tocca ricordare quei giorni chiusi in casa. 2020, marzo. E aprile e poi maggio. Giornate di sole, ovviamente, osservate dalle finestre, dai terrazzi, dalla scrivania, seduti sul pavimento fingendo di esercitare gli addominali, guardando qualcosa su Netflix. Sempre al computer, noi che da poco tempo avevamo dato un nome alla creatura, alle sei mani che scrivono. Montag.
Si cominciava in chiamata, per scalettare, concordare scene, temi, personaggi, tono, stile e quant’altro. Ogni volta ci sembrava tutto dettagliato, chiaro e preciso: non lo era mai, per fortuna. E poi, dai, partiamo e si iniziava a scrivere, senza le voci degli altri, senza vedersi sullo schermo.
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Si inizia anche adesso allo stesso modo. Davanti, soltanto il foglio condiviso. Magari ascoltando un Tolkien lo-fi, musica ambientale, voci in autotune.
La solitudine, l’intimità, si facevano condivise, collettive.
I confini vengono attraversati, diventano curve che accompagnano e abbracciano, guidano dentro, a fondo. Le voci sono benigne quando si fidano e iniziano a contagiarsi, a cedere pian piano il controllo, la volontà di dirsi proprie. D’altronde, era la pandemia, non ci siamo stupiti di aver pensato a una scrittura del contagio. E ci siamo trovati a non sapere più cos’è mio e cos’è tuo. Nessuna gelosia: un poliamore della parola. Nulla di ciò che abbiamo scritto appartiene a uno di noi. Ce ne saremmo accorti davvero solo dopo, durante la revisione ad alta voce, leggendo a turno in videochiamata per commentare, giudicare insieme, amando i corpi che mettevamo giù a parole. “Una maschera non è una faccia. Chi l’ha scritto? Ma che è? Boh. Togli, togli.” Ancora non lo sappiamo, la scrittura collettiva, non solo collettiva, ma simultanea, ha negato ogni origine, ogni “prima di”, è apparsa come un incanto e ha saputo stupirci giorno dopo giorno. Per cinque anni.
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Siamo tornati spesso su alcune parole che volevamo tenere vicine. C’era una frase che tornava: più umani fanno meno umani. Si parlava tanto di Antropocene. Abbiamo iniziato da lì, per capire se tra quelle parole avremmo trovato un nostro modo di raccontare.
Un collettivo dovrebbe togliere di mezzo il singolo, la sua pretesa di unicità. Col tempo sono arrivate nuove parole, nuovi modi di definirci, di fare la stessa cosa con altri mezzi. Ma l’idea di “uccidere” il singolo, l’articolo determinativo, è rimasta.
Inizialmente non è che ci avessimo pensato troppo. La teoria, diciamo, è arrivata dopo. Abbiamo capito che volevamo superare la voce autoriale, l’io individualista e tutta la sua filosofia. Nel romanzo che avevamo iniziato a scrivere prendeva piede l’idea di un umano-altrimenti, e anche nella nostra idea di collettivo cominciava ad avere senso. La forma è contenuto, no? E viceversa.
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Così nasceva un protagonista egocentrico, solipsista, spaventato da ciò che non comprende, cui non sa aprirsi. Tommaso, il ragazzo poi adulto e infine vecchio di cui raccontiamo, ha paura di morire. E lo abbiamo circondato di voci, profezie, consigli, inganni, lo abbiamo assediato e maltrattato. Le tre streghe di Macbeth, un coro assordante che avrebbe spezzato i suoi argini.
Così è stato, con qualche deviazione di percorso, idee buttate o cambiate, altre domande, e riletture, riletture, riletture. Questo nostro amico, Tommaso-personaggio, volevamo portarlo all’inumano. E se lui non ci poteva arrivare da solo, qualcuno lo avrebbe fatto al posto suo. Ma, se vorrete, vedrete da voi.
Questo era: la trama alimentava il nostro metodo di scrittura, e viceversa, di nuovo. Tutto sembrava farsi di volta in volta, ci pareva di imparare la parola daccapo. E non era iniziare da zero, ma sempre dalla cifra di quanto avevamo fatto fin lì, testa per testa, parola per parola, mettendosi sempre in dubbio, in discussione, fino a che non ci siamo detti ecco.
IL LIBRO – La pelle del mondo (Il Saggiatore) è un romanzo che esplora il confine incerto tra corpo e identità, tra natura e macchina. Racconta la storia di chi tenta di riscrivere la propria esistenza, immaginando un “uomo altrimenti”. A firmarlo non è un singolo autore o una singola autrice, ma un collettivo, Montag, composto da Niccolò Monti, Lorenzo Rossi Mandatori e Luca Tognocchi, attivo tra Roma e Torino. Sfruttando la disseminazione concessa dalle piattaforme online, il collettivo in questione segue una tecnica di scrittura simultanea a distanza. Cura la serie Conversazioni Collettive per The Italian Review ed è al debutto nel romanzo.
Veniamo alla trama: Tommaso è un ricercatore ossessionato dal funzionamento del corpo umano, ma la scoperta più difficile che ha fatto riguarda sé stesso: la sua mano destra smette improvvisamente di obbedirgli, trasformandosi in un arto estraneo e inutile. La malattia diventa per lui un trauma e una sfida: riparare, sostituire, migliorare. Deciso a non soccombere alla propria decadenza, si immerge in un mondo dove si intrecciano scienza, filosofia e ingegneria biomeccanica. In questo viaggio è affiancato da figure enigmatiche: Teresa, scultrice che modella corpi, e Jakob, teorico carismatico che predica il superamento dell’umano attraverso tecnologia e forza di volontà.
Sullo sfondo c’è Scriba, entità che registra e modifica il destino del protagonista, un narratore sospeso tra macchina e memoria.
Tommaso attraversa ospedali asettici e laboratori segreti in una ricerca tanto corporale quanto filosofica. Cosa significa abitare un involucro che tradisce? Cosa resta dell’identità quando la carne è sostituibile, la mente programmabile e la vita un progetto in continua trasformazione? Inseguendo l’orizzonte di una nuova condizione umana, si chiede se il cambiamento sia un’effettiva via di salvezza o una condanna inevitabile.
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