“Corpi celesti” dell’autrice omanita Jokha Alharthi, primo romanzo in lingua araba a ricevere il premio Man Booker International, è un ritratto schietto dell’Oman di oggi, con tutte le sue contraddizioni: tra storie di donne, segreti di famiglia, tradizione e modernità

Era il 1970 quando l’Oman aboliva la schiavitù, ultimo tra i paesi del mondo arabo. In quel pessimo posto in classifica c’erano repressioni, violenze, punizioni fisiche, colonialismo, patriarcato, riti tribali, credenze arcaiche e segregazione. Oggi, più di cinquant’anni dopo, l’Oman appare come un paese ricco, moderno e aperto: petrolio, soldi, social media e accesso libero agli studi, anche per le donne.

Queste contraddizioni, che abitavano e abitano l’Oman, sono la trama che sorregge l’intero Corpi celesti (Bompiani, traduzione di Giacomo Longhi) di Jokha Alharthi, vincitore del Man Booker International 2019, primo romanzo in lingua araba a ottenere questo riconoscimento. 

Corpi celesti

Alharthi è nata in Oman otto anni dopo l’abolizione della schiavitù, nel 1978. Ha studiato in Oman e a Edimburgo e oggi, oltre a scrivere, insegna letteratura araba alla Sultan Qaboos University, non lontano dalla capitale omanita, Mascate.

In Corpi celesti l’autrice ha scelto di disegnare il suo paese attraversandone luci e ombre – cosa che, del resto, ha fatto e continua a fare anche nella vita quotidiana – e scandagliando quelle origini che, spesso, i suoi stessi connazionali preferiscono non ricordare. L’Oman ha smesso di conservare i pezzi del suo passato e di interrogare le vecchie generazioni. Per questo molti omaniti, dopo aver letto il romanzo, hanno commentato “Jokha Alharthi non ci rappresenta”.

Il ritratto schietto dell’Oman di oggi prende forma grazie alla storia di tre sorelle originarie del piccolo villaggio di ‘Awafi: Mayya, la maggiore, Asma’, con la sua passione per la letteratura, e Khawla, la più bella e ribelle. Grazie a queste vite, il romanzo copre quattro generazioni di donne: mogli modello e “zitelle”, figlie obbedienti e figlie ribelli, beduine piene di fascino e seduzione, schiave e concubine

A fare da narratore, unico personaggio a parlare in prima persona, è ‘Abdallah, figlio di un ricco mercante di schiavi, marito di Mayya e papà di tre figli. Una bella casa, un ottimo lavoro e una vita apparentemente perfetta. Sotto quella facciata senza crepe ci sono il dolore per un padre dispotico, quello per un figlio autistico, per una moglie che non lo ama e per una madre, presto sostituita dalla concubina del padre, morta poco dopo il parto per circostanze a lui sconosciute (forse a causa di uno spirito maligno, forse perché avvelenata da una rivale in amore o forse, ancora, a causa di una relazione con uno schiavo). 

Il risultato è un romanzo sincero e dedicato alla libertà di amare, in un senso opposto rispetto alla narrazione delle “anime gemelle” e opposto rispetto alle “due metà” raccontate nel Simposio di Platone, lettura preferita di Asma’: “le persone non sono entità incomplete in cerca della loro metà mancante. Che né i corpi né le anime sono divisi in due. Che non esistono due persone che, a livello spirituale, combacino alla perfezione”. Che le persone sono “un corpo celeste completo in sé e per sé”.

Alla difesa della libertà di amare si aggiungono il desiderio di cambiamento, la nostalgia per le tradizioni e un femminismo davvero intersezionale, veicolato proprio grazie alla voce di ‘Abdallah. Il narratore è un uomo fragile, vittima del padre e incapace di scegliere. Nella sua vulnerabilità c’è la dimostrazione di come un sistema patriarcale danneggi uomini e donne allo stesso modo; nella sua sensibilità ci sono frasi che vorrete sottolineare e portare con voi, come quella dedicata alla figlia London: “Non le ho detto che stare lontano da casa permette di conoscersi più a fondo, proprio come fa l’amore”. 

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