“Cronache della sesta estinzione” di Stefano Valenti è un romanzo ricco di echi letterari, che racconta il crollo di un mondo interiore ed esteriore, il male oscuro della malinconia che si fa soverchiante in uno scenario di devastazione, fino a spingere il protagonista alla ricerca di una salvezza, al recupero di un mondo diverso che possa essere casa per gli uomini

La sindrome della fine del mondo, ovvero il crollo di ogni orizzonte di senso dell’esistenza e la perdita della possibilità di utilizzare e sentire davvero la realtà, è stata più volte studiata da antropologi e filosofi nel corso dell’ultimo secolo. E sono frequenti i resoconti di un vissuto patologico in un mondo svuotato, deserto, spoglio ormai di ogni possibilità e come consegnato all’infinita ripetizione della catastrofe.

Cronache della sesta estinzione di Stefano Valenti, edito dal Saggiatore, racconta proprio la storia del tramonto di un mondo, esteriore e interiore.

Il protagonista è un uomo perduto perché affetto da malinconia: non una semplice tristezza ma il lutto generalizzato, una mancanza assoluta che ne devasta l’affettività e il rapporto con gli altri. Isolato in una società di individui isolati, alienato da lavori massacranti in un contesto in cui l’estraniazione è la cifra comune della vita associata, quest’uomo senza nome deperisce e si paralizza sempre più, si sente svanire. 

Ha trascorso la sua vita nella povertà e soprattutto nella mancanza di amore, è stato affidato da bambino a una donna che lo voleva come sostituto del figlio, ha studiato filosofia ma piano piano il suo male oscuro ha preso il sopravvento impedendogli di esistere, congelando i suoi gesti.

Intorno a lui, o meglio sullo sfondo, c’è un mondo bianco e uniforme fatto di periferie disadorne, ospedali, fabbriche e capannoni. Da questi scenari anonimi ogni tanto  riecheggiano notizie di una minaccia ancora più grande, di una fine che potrebbe trascinare con sé tutta la terra.

“Le previsioni del tempo davano neve ed era un sollievo, un’ombra minuta, nel bel mezzo delle pene che infuriavano, l’accelerazione all’estinzione dell’esistere come lo conoscevamo. L’estate precedente le fiamme avevano distrutto intere regioni dell’emisfero settentrionale (da Seattle alla Siberia)“.

Ed è per questo che, quando il dolore si fa soverchiante, l’uomo decide di fuggire, di comprare un furgone e scappare alla ricerca di un altrove, di un luogo che non sia ostile ma abitabile, un ambiente con il quale si possa entrare in contatto e dove trovare pace e calore buono, tutto ciò che sembra essere negato dalla realtà stessa. E la salvezza avrà il volto di una nuova e strana primavera, con i tratti dolci e incorrotti dell’infanzia e della rinascita, e lontana dai luoghi dove gli uomini non sono più al posto giusto, perché hanno perduto, in tutti i sensi, la loro casa.

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Cronache della sesta estinzione è un romanzo ricco di echi letterari, tra i quali spicca quello di Agota Kristof e delle sue figure desolate che si aggirano in un mondo piatto e uniforme nell’orrore, preda di una miseria economica ed emotiva.

Ma anche altri riferimenti, alcuni leggibili in filigrana nel testo e uno più esplicito: Robinson Crusoe, il libro di Daniel Defoe che il protagonista decide di tradurre. Un riferimento volutamente ambiguo, perché da un lato Robinson è l’eroe dell’intraprendenza borghese (non a caso Marx definiva alcune teorie di economia politica delle robinsonate), l’uomo che colonizza un isola e rifugge l’incontro con gli altri, l’uomo isolato per eccellenza, al tempo stesso predatore e spaventato, che con le sue avventure riproduce la genesi del capitalismo industriale.

Ma dall’altro Robinson è il modello che il protagonista sceglie di imitare rovesciandone però gli intenti, perché si mette alla ricerca di un’isola che non sia terreno di cupidigia e guadagno, “riserva di caccia commerciale di esseri umani”, ma un luogo dove invece si possa vivere in comunione con gli elementi,  in una simbiosi che faccia dimenticare tutte le ferite, quelle inferte all’anima tanto quanto quelle del corpo e del tempo, costruendo qualcosa di impossibile da trovare nelle città divenute inferno sulla terra. 

Scritto in una prosa al tempo stesso dura e poetica, il romanzo di Valenti mette in scena un io narrante dalla voce e gesti deformati che però restituiscono con nitida precisione l’immagine della nostra attuale sopravvivenza in un contesto sempre più degradato. Racconta la storia di una caduta nella dannazione del sentimento della fine che riesce però a rovesciarsi in un riscatto, a riconquistare il desiderio di intrecciare nuovi legami tra gli esseri viventi.

Anche nel fondo della disperazione si annida una piccola scintilla, una realtà viva che permette la fuga dalla realtà in sfacelo.

“L’isola (vista dal mare) avrebbe dovuto apparire in una distesa verde. (…) E da quei boschi gli sprofondati avrebbero dovuto trarre sostentamento ideale, come dal mare che avrebbe avuto acque tiepide e ricche di pesci. E gli sprofondati (silenziosi e solitari, gli occhi attoniti come se nascessero dallo stupore di uno spettacolo visto e dimenticato) non avrebbero conosciuto né governi né caste“.

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