Su ilLibraio.it la recensione di “Cuori puri”, film d’esordio di Roberto De Paolis, opera intensa, sapientemente e poeticamente irrisolta, carica di promesse…

Una rete metallica. Come quella che circoscrive i lavori in corso, come quella che “arreda” e segna i confini mobili e incerti di una capitale periferica e persa, somma di non luoghi, degrado, disorientamento e marginalità. Questo confine diffuso e permeabile (attraverso il quale volano sguardi e insulti, pietre e desideri), questa protezione labile (scavalcabile, facile da allestire quanto da infrangere), attraverso la quale si percepisce il mondo come gabbia e separazione, è il simbolo, più vero e più spietato di un muro, più prossimo e immediato di uno schermo, attorno al quale l’esordiente Roberto De Paolis, scuola di cinema a Londra e passato da fotografo, costruisce la trama e intesse l’intreccio di Cuori puri. Come fosse il fil rouge (rosso passione e rosso sangue), o meglio il filo spinato, che disegna una contemporanea via crucis che la nostra società è costretta a mettere in scena con disumana quotidianità, come se fosse l’illusione di una separazione e di una purezza che non possono più (non hanno mai potuto?) avere luogo.

Stefano prova a salvarsi da indigenza e microcriminalità che lo assediano con un lavoro da guardiano di un centro commerciale e poi di un parcheggio confinante con un campo Rom. Agnese è figlia insofferente e curiosa di un’ideologia cattolica che promuove un’etica del sacrificio come antidoto al degrado urbano e valoriale, e di una madre premurosa e iperprotettiva preoccupata più dalla verginità della figlia che dalla sua felicità. I due s’incontrano (meglio: si scontrano) proprio in un corpo a corpo contro una rete metallica. Il giovane uomo insegue la ragazza quasi diciottenne che, acciuffata con un cellulare rubato, spalle alla recinzione, chiede pietosamente di essere lasciata andare al guardiano (propiziandone un’occasione angelica) che l’ha presa e la strattona ansimante, minacciando di denunciarla. Stefano, poco portato a fare la guardia e intenerito dall’innocenza disarmante della ragazzina (o forse già derubato di qualcos’altro dallo sguardo umiliato e offeso della giovane), decide di ridarle la modesta refurtiva e lasciarla fuggire.

I due s’incontrano nuovamente quando la madre accompagna la figlia in un campo di zingari per portare soccorso ai “bisognosi”, e Stefano, declassato a custode di un parcheggio confinante per essersi lasciato sfuggire ladra e refurtiva, si trova a sorvegliare lo spazio per le auto, spoglia proprietà privata sotto minaccia costante degli accampati al di là della rete, in una continua e logorante ostilità fra poveri.

Ecco che quella recinzione, attraverso l’incontro casuale e necessario di queste due anime, che cominciano a varcare gradualmente la soglia dell’altro dialogando attraverso la griglia che li separa, inizia a descrivere un varco profondo e possibile fra mondi distanti, un’apertura rischiosa (eroica ed erotica), destabilizzante eppure salvifica: non tanto e non solo quella fra questi novelli Romeo e Giulietta, ma quello spazio critico (l’etimologia è krínô: separare, distinguere) che traccia la distinzione, spesso calpestata e misconosciuta, fra volontariato e desiderio, sicurezza e cura, legge e spirito, suggerendo quei territori di confine e d’incontro che possono pure darsi fra Roma e Rom, corpo e cuore, purezza e fusione.

Le tensioni che la storia di Stefano e Agnese scatena e rivela portano a un crescendo che sembra non poter che sfociare che in un esito tragico (la mazza da baseball nascosta all’inizio, secondo una convenzione deterministica della sceneggiatura, dovrebbe immancabilmente venire utilizzata in un secondo tempo). La violazione simbolica profonda che la passione porta con sé (delle norme sociali e di tutte le cinture di sicurezza e castità che la paura è capace di approntare come reti metalliche dell’anima) sembra non poter che condurre a un finale esplosivo, violento o mortifero.

Eppure, non per difetto di sceneggiatura, la scelta coraggiosa di De Paolis, e dei tre autori che con lui firmano lo script, è di evitare la deflagrazione tragica, di lasciare irrisolti molti dei nodi sociali, culturali e psicologici che si aggrovigliano e si tendono cammin facendo. La decisione di trasformare il conflitto della coppia, la loro fisicità irrisolta, da lotta in abbraccio/bacio del finale, lasciando tuttavia in sospeso lo spettatore rispetto agli esiti relazionali e di plot del film, appare un modo rispettoso e giusto di raccontare la sospensione etica che ci attraversa, con un ottimismo generativo ma non consolatorio.

Con qualche didatticismo di troppo, soprattutto nel descrivere il milieu cattolico della protagonista e affidando al Don, padre spirituale della ragazza, qualche parola e parabola di troppo, Cuori puri, per la capacità di stare nella pelle dei suoi personaggi e di raccontare i conflitti della contemporaneità senza eccessivi schematismi, con adesione ma senza condiscendenza, è il cinema più vicino a quello dei fratelli Dardenne che l’Italia sia capace di esprimere. Asciugato di qualche verbosità e melodrammaticità di troppo (anche banalmente nell’uso della colonna sonora), De Paolis ci regala comunque un primo film intenso, sapientemente e poeticamente irrisolto, carico di promesse.

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