Un viaggio inquietante in una Milano travolta da un’isteria collettiva, tra smarrimento e crisi generazionale. “E tutti danzarono”, il nuovo libro di Alessandro Bertante, racconta una gioventù in bilico tra trance e disperazione. Un romanzo che è al tempo stesso denuncia sociale e profezia oscura…
“Una nuova alba svanisce mentre il nuovo mondo si palesa minaccioso. Non so se riusciremo ancora a raccontarlo”. Questa la sentenza, potenziale punto di fine ma anche di inizio di ogni narrazione indagatrice della società, con cui Alessandro Bertante conclude il suo nuovo romanzo, E tutti danzarono (La Nave di Teseo).
Una denuncia urlata e delicata al tempo stesso, una distopia che è sfogo individuale, generazionale, collettivo. Se nel suo ultimo libro, Mordi e fuggi (Baldini + Castoldi 2022, finalista Premio Strega), l’autore classe ’69 (course leader senior del triennio di Cinema e Animazione presso la NABA di Milano) indagava la memoria storica italiana del terrorismo rosso, qui lo sguardo si volge a un presente immaginario (o a un vicinissimo futuro) in cui un evento di apparente isteria collettiva paralizza un’intera città, rivelando un inquietante disagio generazionale.
Ivan Boscolo, docente universitario alla Statale di Milano, è un uomo di mezza età segnato dal divorzio, dall’ipocondria e dall’uso abituale di alcol e ansiolitici. Ha un rapporto complesso con la figlia, Micol, e la sua apprensione esplode quando scopre che Micol parteciperà a un enorme rave a Parco Sempione, organizzato dal sindaco in occasione del solstizio d’estate, un evento che ha attirato una massa impressionante di giovani. In breve, la città viene travolta da una quasi trecentomila ragazzi di tutta Italia che ballano senza mai fermarsi, come in trance.
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Così, con un’urgenza febbrile, si mette alla ricerca della figlia, per sottrarla a quest’incantesimo psichedelico che la tiene prigioniera e attraversa una Milano rovente e spettrale, come un Dante contemporaneo, privo però di un “Virgilio” che lo guidi, senza coordinate efficaci, pur conoscendo a perfezione le strade, i quartieri, la storia della città.
Le forze dell’ordine brancolano nel buio, incapaci di ristabilire l’ordine. Abituate a muoversi in un mondo di opposizioni nette, dove esiste solo chi obbedisce e chi resiste, ora si confrontano con una folla estranea a questa logica: ragazzi e ragazze privi di volontà attiva, né ribelli né timorosi, come sospesi in una forma di parziale incoscienza. Intanto, nell’ombra e nel disordine di questa anarchia, i crimini più feroci trovano terreno fertile e si diffondono senza ostacoli.
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Non tutti, però, sono contagiati da questa “piaga del ballo”. In Piazza Cinque Giornate, davanti alla mensa dell’Opera di San Francesco, un gruppo di poveri – pensionati, immigrati, disoccupati – ne rimane immune, fermo, in fila, in attesa del pasto serale. Lo stesso accade con i militanti anarchici. E il motivo appare chiaro, seppur non esplicitato: è immune chi vive ai margini della società, forse per gli anticorpi derivanti dalla solitudine, da una lucidità disperata o dalla rassegnazione verso la possibilità di migliorare la loro condizione.
Nessun sapere tradizionale né strumenti di controllo o interpretazione riescono a offrire al protagonista (e, con lui, all’autore e al lettore) una chiave risolutiva di fronte a un fenomeno tanto disallineato dalle coordinate storiche. Così, il contrasto tra la sua meticolosa padronanza della toponomastica milanese e il senso di smarrimento che lo pervade riflette la perdita di ogni riferimento personale.
La presenza costante, ma del tutto sterile – se non anzi dannosa –, della polizia segnala il collasso dei meccanismi di regolazione sociale. Persino il sapere accademico e la conoscenza storica si rivelano inerti, svuotati della loro funzione critica e interpretativa, incapaci di offrire strumenti di lettura efficaci.
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Questo tipo di cortocircuito, tuttavia, proprio perché non isolato, ma sistemico, è forse un grido di allarme. Bertante riesce così a costruire una narrazione plastica, chirurgica come se fosse cronaca, ma al contempo drammatica e visionaria come se fosse una profezia travestita da novella: la danza inarrestabile altro non è che immagine riflessa, proiezione letteraria di un turbamento già vivo e presente in una “una giovane umanità priva di sguardo sul futuro, percossa, impaurita e vilipesa“.
Un’inquietudine non isolata nel panorama della letteratura italiana contemporanea e che, seppur con significative differenze di stile e di contenuti, trova risonanze nelle esplorazioni del vuoto e dello smarrimento delle nuove generazioni che informano testi come La città dei vivi di Nicola Lagioia e 25 di Bernardo Zannoni.
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Non è infatti un dettaglio secondario che siano i giovani gli unici a essere vulnerabili a questa psico-follia collettiva. La crisi che Bertante raffigura e mette in scena con la suggestione simbolica della danza infinita è il risultato di una società che ha inseguito solo benessere materiale e autonomia, senza considerare le conseguenze. Una società in cui i giovani, cresciuti in una libertà senza direzione, si trovano disorientati, impreparati alle scelte della vita, privi di educazione critica, di strumenti per interpretare e accogliere i cambiamenti. E ciò che appare come un delirio collettivo è in realtà la manifestazione di un vuoto trascurato troppo a lungo, di una tensione inespressa e implosa.
Bertante non offre risposte rassicuranti, né chiavi di lettura univoche. E tutti danzarono è un’allucinazione lucida, che si chiude con un’eco angosciante.
Cosa resta? Se per Dante il cammino infernale terminava con il ritorno alla luce, qui il viaggio si arresta nel buio, senza redenzione. L’alba svanisce e «il nuovo mondo si palesa minaccioso»: l’uscita dall’incubo, questa volta, non contempla stelle da rivedere.
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