“Elogio dell’ospitalità. Riflessioni sul cibo e sul significato della generosità”: dal senso di comunità alla politica; dall’identità di genere ai ricordi di famiglia; dal langar sikh all’Iftar islamico, ecco tutte le storie che solo il cibo sa raccontare…
Pensate mai a quanti significati abbia il cibo? A cosa racconta una cena con gli amici, una tavolata di quartiere, un piatto cucinato pensando a qualcuno?
Priya Basil sì, lo fa spesso, e così ha deciso di mettere insieme i suoi pensieri in un libro dal titolo Elogio dell’ospitalità. Riflessioni sul cibo e sul significato della generosità (il Saggiatore, traduzione di Alessandra Castellazzi).
Premessa, questa volta doverosa: Priya Basil ha una storia fatta di profumi forti, ricette di famiglia e pezzi di identità che spesso passano da piatti abbondanti e tavole condivise.
Lei, scrittrice e attivista, nasce a Londra da una famiglia di origini indiane con la quale si trasferisce in Kenya, dove trascorre la sua infanzia.
Oggi vive tra Londra e Berlino e ripercorre i suoi ricordi attraverso il kadhi della mamma (un curry cremoso fatto con farina di ceci e yogurt) e il khichari della nonna “mumji” (una classica ricetta casalinga indiana che ha la forma di una ciotola di riso e lenticchie cucinati con poche spezie così da essere facilmente digeribili e adatti a tutti).
Nelle 125 pagine scritte dalla sua casa berlinese, Priya Basil traccia i confini dell’ospitalità e lo fa quasi fisicamente dicendo: “L’ospitalità, se dovessi disegnarla, sarebbe una serie potenzialmente infinita di cerchi concentrici che si propagano da ognuno di noi”.
Dentro quei cerchi c’è il cibo: c’è la “prima cena”, quella in cui si presenta il proprio compagno o la propria compagna alla famiglia; c’è il langar, un pasto comunitario aperto a tutti e servito gratuitamente nei templi della comunità sikh, di cui Priya Basil e i suoi fanno parte.
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E poi c’è l’identità di genere.
La cucina è da sempre, nella nostra cultura, un luogo femminile, responsabilità di madri e casalinghe. La cucina come casa, s’intende. Perché quando diventa “alta cucina”, e quindi retribuita, allora è uomo e chef. “Anche se mi piace molto cucinare e offrire buon cibo alle persone, vorrei che l’atto non fosse così radicato nei tradizionali ruoli di genere, e vorrei che non mi importasse tanto dell’impressione che faccio ai miei ospiti”. E lo vorremmo tutte.
Ancora, nel cibo e nell’ospitalità ci sono la salute umana e quella del pianeta, a ricordarci che circa un terzo del cibo prodotto ogni anno a livello globale per il consumo umano viene perso o buttato; c’è la storia e ci sono le storie; ci sono i social di #foodporn, c’è la seduzione e c’è il potere, quello del banchetto organizzato dal quarto imperatore della dinastia Qing, Kangxi, con 108 portate e più di 2500 ospiti; oppure quello di 50 portate servito per il matrimonio di Maria de’ Medici e di Enrico IV; oppure ancora quello più costoso di sempre, “18 tonnellate di cibo fatte arrivare in aereo a Persepoli nel 1971 per un festeggiamento di tre giorni organizzato dallo scià d’Iran in occasione dei 2500 anni del Paese”.
I potenti a banchettare mentre il popolo, fuori, a morire di fame. “Eventi del genere suggeriscono che un’eccessiva ospitalità può essere una forma di ostilità”.
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E poi c’è la politica. Oggi “stiamo diventando al tempo stesso più ospitali e inospitali”. Ospitali nell’attenzione che abbiamo verso le esigenze degli altri come singoli, dimostrata dalle lunghe liste di sigle che occupano molti menù, a indicare intolleranze, allergie o scelte alimentari; “un’esibizione di tolleranza per delle comuni intolleranze alimentari”.
Inospitali perché siamo riluttanti nell’accogliere all’interno di una comunità che chiamiamo “nostra” persone esterne, “stranieri”. Siamo individualisti, bravi a costruirci un futuro per noi e non a combattere per i diritti di tutti.
“Desidero questi scambi, li pretendo, provo a organizzarli. Eppure, tuttora, quando un amico mi chiede di portare a cena da me qualcuno che non conosco la mia prima reazione è: Oh no! Una volta ho detto di no, e quella decisione ha lasciato un amaro in bocca che persiste: non solo non è venuto l’accompagnatore, ma nemmeno il mio amico. Qui sta il paradosso dell’ospitalità. Senza ospitato, non c’è nessun ospitante. Senza ospitante, nessun ospitato. Solo sconosciuti”. Priya Basil lo racconta così e nelle cose che rimangono “solo sconosciute” non c’è valore.
Leggendo Elogio dell’ospitalità mi sono venuti in mente così tanti ricordi e riflessioni da invidiare la capacità di Priya Basil di farli stare in poco più di 100 pagine. Quello più forte, però, è questo: ogni anno (Covid permettendo), la Moschea Taiba di Torino organizza una tavolata di quartiere per celebrare insieme a tutta la comunità la rottura del digiuno di Ramadan. Al calar del sole, lungo la via di fronte alla Moschea, centinaia di persone sconosciute si siedono intorno a un’unica lunghissima tavola per condividere l’Iftar e festeggiare un giorno che diventa importante solo grazie a quel gesto di ospitalità. La comunità islamica non si limita a servire un pasto gratuito ma apre le porte della Moschea con visite guidate e incontri con il suo Imam.
Così, mentre leggevo di Priya Basil seduta insieme al marito al langar del tempio di Kögelstrasse a Berlino, ricordavo quell’energia unica che c’è nell’aria quando ci si trova di fronte a uno sconosciuto per condividere lo stesso pasto.
Nel langar ci si siede per terra e si mangia solo cibo vegetariano, per non offendere sensibilità religiose. La regola è sempre la stessa, che sia il langar o l’Iftar: “Non serve un invito, basta presentarsi per essere ben accolti”. E, per me, questo è il tipo di ospitalità più autentico, rivolto agli “stranieri”, tutti, per smettere di essere “solo sconosciuti”.