“Se le parole vengono scritte o pronunciate, allora i sentimenti che descrivono si possono provare. Questa è la scoperta più grande che ho fatto da adulta e che ho sentito la necessità di trasportare dentro a un romanzo. Per un senso di bisogno, di urgenza e di responsabilità. Anche e soprattutto nei confronti della me bambina…”: su ilLibraio.it la riflessione di Espérance Hakuzwimana, in libreria con il romanzo “Tutta intera”

Da bambina volevo avere tutto. Le parole, in primis.

Le desideravo tutte quante e le volevo possedere a mio piacimento. Nella mia testa o in fondo alla pancia. Le mantenevo al riparo per rimestarle, tirarle fuori per dirmi e dire i miei pensieri agli altri nel modo adatto, il migliore possibile. Ma anche per non farmi ferire come solo i bambini e gli sconosciuti sanno fare.

Crescendo scrivere e parlare si sono mischiati rincorrendo le necessità di un mondo velocissimo in cui le verità, l’attualità e le lotte sono cadute negli schermi e noi insieme a loro. Fagocitandoci e liberandoci contemporaneamente.

Mi sono adeguata anche io in tempi rapidissimi. Così dal vivo e online ho tirato fuori quelle parole collezionate nell’infanzia e con loro una buona parte di me. Non tutta. La più esposta, quella impossibile da nascondere.

Nei sei anni in cui ho realizzato il mio primo romanzo ho compreso che scrivere, prima di tutto, è un atto di responsabilità. Bellissimo, prosciugante, immersivo. Un’esperienza di estrema solitudine ma anche di gioia e orgoglio pieno. Eppure, dal momento in cui un libro diventa proprietà altrui le regole cambiano e in qualche modo anche chi lo ha scritto.

Ho sempre immaginato che, oltre che ad esserlo già nella mia essenza profonda, diventare scrittrice – il mio nome sulla copertina, le persone che leggono e poi fanno domande, chiedono autografi – fosse il punto massimo. La realizzazione più limpida e grande: essere letta, ascoltata e capita.

Ma non era e non poteva essere solo quello.

La storia che ho scelto di raccontare – i personaggi, l’ambientazione, i temi – porta con sé uno sguardo un po’ più defilato dall’idea di trama pura, di intrattenimento. Una lettura un po’ più sottile da riconoscere, in cui l’incontro con il prossimo diverso da noi diventa il perno, la base fondamentale da cui poter parlare di altro, molto altro. La contaminazione umana, i lati nascosti del razzismo, l’adozione internazionale, i pregiudizi difficili a morire e la mancanza di strumenti emotivi e socioculturali che ci aiuterebbero ad ampliare i nostri orizzonti, le nostre menti.

Sara Righetti, la protagonista di Tutta intera, è una ragazza italiana nera adottata che vive in una realtà di provincia in cui cresce protetta e riempita d’amore dalla famiglia e dai concittadini. Una gabbia dorata, la sua, che metaforicamente riesce a “sbiancare” il colore della sua pelle, la sua identità di origine straniera e la sua diversità che spicca in ogni spazio. Ma sarà proprio l’incontro con una classe di ragazzine e ragazzini di seconda generazione (figli di immigrati, con background culturale e origini di paesi extraeuropei) che obbligherà Sara a farsi domande su di un mondo che in qualche modo le appartiene ma che lei non riconosce e rifiuta per ignoranza, diffidenza e anche paura; portandola così a una crisi identitaria necessaria e potente.

Le parole che mancano alla protagonista per capirsi e scoprirsi – insieme ai silenzi, il digiuno emotivo dovuto al non sentirsi parte né di un posto (quello in cui è cresciuta) né dell’altro (quello con cui viene a contatto) – sono le stesse che sin da bambina ho cercato ovunque per potermi definire e difendere. Risuonano, si ripetono e si rincorrono nelle voci di chi gravita attorno a Sara Righetti e sfociano anche dal suo fiume personale di ricordi.

Se i termini esistono, se le parole vengono scritte o pronunciate, allora i sentimenti che descrivono si possono provare.

Questa è la scoperta più grande che ho fatto da adulta e che ho sentito la necessità di trasportare dentro a un romanzo. Per un senso di bisogno, di urgenza e di responsabilità appunto. Anche e soprattutto nei confronti della me bambina che ha cercato senza sosta parole per dirsi, per validarsi e, alla fine, riuscire a raccontarsi da sola.

tutta intera hakuzwimana

IL LIBRO E L’AUTRICE – Espérance Hakuzwimana è nata in Ruanda nel 1991. Durante il genocidio è stata adottata da una famiglia italiana ed è cresciuta in provincia di Brescia. Dal 2015 vive a Torino, dove ha frequentato la Scuola Holden. Fa attivismo collaborando con associazioni contro il razzismo. Ha raccontato la sua storia in E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana (People, 2019).

Tutta intera è il suo romanzo d’esordio e unisce al tema della diversità quello della scuola e dell’educazione. Racconta di Sara, insegnante presso una scuola di Basilici. I suoi studenti arrivano da tutte le parti del mondo e la guardano con diffidenza. La chiamano Signorina Bellafonte, perché anche se è nera (come la maggior parte di loro) non è una di loro: è cresciuta di là dal fiume Sele che taglia in due la città, suo zio è un pezzo grosso del frutteto, e da quelle parti le pesche le chiamano oro rosa, perché sfamano molte famiglie. Sara è la figlia adottiva di un professore di liceo e della cuoca dell’asilo. Sua mamma preparava torte e coltivava rose, suo padre le ha insegnato la passione per le parole: il suo mondo da bambina aveva confini certi. Ora don Paolo le ha trovato questo lavoro, crede che lei sia la persona giusta. Giusta perché? Perché ha il loro stesso colore di pelle? Eppure questi ragazzini, che conoscono tre lingue e ne inventano una diversa ogni pomeriggio, la scrutano, la sfidano di continuo

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