“Grande autore dalle opinioni insostenibili” (secondo George Orwell)… l’unico genio comico del Novecento inglese (secondo Borges). Viaggiatore accanito (non appena ha potuto permetterselo, grazie al successo dei suoi libri), Evelyn Waugh (1903-1966), forte di una scrittura magnifica, in “Un turista in Africa” rivendicò, con la sua solita leggera arroganza, la propria saga personale, confermandosi tanto affascinante quanto irresistibile antipatico. Elegante, caustico e pungente a tempo stesso…
Evelyn Waugh, “grande autore dalle opinioni insostenibili” secondo George Orwell – o a scelta l’unico genio comico del Novecento inglese (secondo Borges), è stato un viaggiatore accanito non appena ha potuto permetterselo, grazie al successo dei suoi libri, all’inizio degli anni Trenta; o forse solo perché aveva cambiato idea.
Prima era decisamente ostile a tutto ciò che fosse al di là della Manica. L’estero gli pareva insopportabile e non interessante, anzi peggio. Nel 1927, durante un breve soggiorno in Grecia, scrisse sul diario una pagina di pura stizza: “La verità è che non mi piace proprio trovarmi all’estero a lungo. Desidero vedere il massimo possibile durante questa vacanza e poi rinchiudermi per il resto della vita nelle isole britanniche”. E aggiunge, lui che pure non era stato alieno da esperienze omosessuali: “Non aveva torto l’anziano superstite dell’era edoardiana quando sosteneva che l’estero è un luogo bestiale pieno di maledetti sodomiti”.
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Nel ’30 già cambiò idea, dando inizio a una lunga serie di libri di viaggio e non solo, basti pensare a L’inviato speciale, romanzo straordinariamente comico modellato sulle sue corrispondenze per il Daily Mail – molto simpatetiche -, dall’Eritrea mussoliniana. Cominciò con Etichette (Labels. A Mediteranean Journal), libro grazie al quale la sua popolarità – e il suo conto in banca – erano destinati a intraprendere una crescita quasi miracolosa.
Nel celebre Quando viaggiare era un piacere (When the Going was Good), un volume del 1946 con resoconti di molti soggiorni all’estero tra il 1929 e il 1935, già pensava di rendere omaggio a un’epoca morta e sepolta (“Il tempo di viaggiare è finito per me, né mi aspetto di vedere, nel prossimo futuro, molti libri di viaggi… Mai più, credo, approderemo su suoli stranieri armati di lettere di presentazione e di passaporto (già di per sé, quest’ultimo, primo pallido presagio della grande nube oscura che ci avviluppa), con la sensazione che l’intero mondo sia spalancato davanti a noi”.
Non era vero, anche se non tutti i viaggi furono privi di fantasmi, almeno a stare a un suo atipico romanzo del ’57, The Ordeal of Gilbert Pinfold allucinato e angoscioso e in qualche modo sperimentale, naturalmente autobiografico, in cui il protagonista perseguitato da voci misteriose si abbandona a un profondo malessere a bordo di una nave diretta in Asia, e viene descritto in modo spietato: “Detestava la plastica, Picasso, i bagni di sole e il jazz; per la verità tutto ciò che era successo durante la sua vita. La scintilla di carità che gli perveniva dalla religione bastava appena a temperare il suo disgusto e a mutarlo in noia”. Un autoritratto dell’artista precocemente imvecchiato. Ciò nondimeno continuò a partire fino al ’60, quando con Un turista in Africa (appena uscito per Adelphi, che ne ha pubblicato tutta la saggistica; i romanzi sono invece Bompiani e Guanda) rivendicò con la sua solita leggera arroganza la propria saga personale, quasi un’epitome: morirà del resto nel ’66, dopo alcuni anni molto difficili qualche racconto e un solo libro, l’ultimo elegiaco romanzo della trilogia Uomini in armi nel ’61).
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Qui però è tornato l’entusiasmo del viaggio: “Dichiaro, e con compiacimento, che a cinquantacinque anni mi trovo nella stagione della vita in cui devo svernare all’estero, anche se a dire il vero è uno stadio che ho raggiunto trent’anni fa. La caccia alla volpe mi piaceva, almeno così pensavo, ma nel periodo natalizio l’entusiasmo si affievoliva”. Waugh si percepisce di volta in volta come l’ultimo viaggiatore, perché, scrive, ormai “turismo e politica hanno fatto terra bruciata. E poi cinquantacinque anni è un’età che non fa per i viaggi: troppo vecchi per la giungla, troppo giovani per le spiagge, meglio rinfrancarsi guardando gli altri che lavorano, che conducono un’esistenza molto diversa dalla nostra. Poche esperienze sfibrano quanto socializzare con quelli che trascorrono le vacanze sulla costa settentrionale della Giamaica e che sono tutti più vecchi, più grassi, più ricchi, più scioperati e più brutti di noi”. E tuttavia ancora una volta sta per sfiorare quantomeno la giungle e persino le spiagge, mentre il suo pessimo umore diminuirà come sempre, graziato da un’Africa che pure non è più la stessa.
Sono ormai sempre più evidenti i segni dell’imminente decolonizzazione, e conseguente fine dell’Impero britannico. È curioso però che da Porto Said al Sudafrica (ma con una prima tappa a Genova, che trova meravigliosa e sorprendente), lungo tutta la costa occidentali del continente, fra treni scomodi, navi accettabili e aerei detestatissimi, Waugh si comporti esattamente come nei decenni del suo tempo che si presumerebbe perduto (e rimpianto), fra lettere di presentazione, ospiti garbatissimi, funzionari solleciti che lo accompagnano dovunque, veri e propri tour de force, esplorazioni maliziose di città che non sembrano riservare niente di interessante e invece, come Mombasa, nascondo il piccolo gioiello dello Star Bar; dove le persone per bene non vogliono andare, ma Waugh si diverte un mondo.
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Nulla sembra cambiato, in superfice. Lo scrittore è anzi accolto più che mai con tutti gli onori ( è molto famoso, anche in America dove i suoi romanzi hanno venduto moltissimo), fa quello che vuole e ottiene tutto ciò che desidera, sembra diventare sempre più gradevole e gentile, anzi lo ammette egli stesso, chiedendosene il perché; i suoi umori acri emergono qui e là ma verso terzi e non diretti agli interlocutori, come quando si chiede “fino a che punto la perdita di prestigio degli europei nei paesi caldi dipenda dalla vile preferenza per la comodità a scapito della dignità” visto che i suoi connazionali residenti se ne vanno in giro in pantaloni corti. Ammira i Masai, ma sostanzialmente quasi non vede – o finge di non vedere – le popolazioni locali, si diverte con leggende cannibali.
La sua Africa è in gran parte di inglesi, boeri e tedeschi – questi ultimi raccomandabilissimi come albergatori a differenza dei compatrioti, e a sottolinearlo è un tratto di futilità ringhiosa ed esilarante.
Le nevi del Kilimangiaro, ad esempio, non hanno effetti hemingwaiani, semmai sono memorabili per un salutare abbassamento della temperatura e “un solido alberghetto tedesco all’antica, con i balconi, una terrazza, un prato, un giardino fiorito e una gabbia di scimmie”. Gli altopiani orientali della Rhodesia, che gradisce non poco, gli offrono l’occasione per prendersela col turismo in Costa Azzurra, dove “i superstiti e gli imitatori degli eleganti giovani nevrotici descritti da F.S. Fitzgerald in Tender Is the Night sono ormai quegli unti ammassi di carne che il proletariato assedia e invade”; e per ribadire che “La mania dell’abbronzatura è durata anche troppo”. In Tanzania la città costiera di Pangani dà adito a qualche dubbio amletico, perché “forse non sopravviverà a lungo. All’Africa moderna serve a poco. Dovrei farmi scrupolo di disturbare la sua mite decadenza raccomandandola ai turisti? Non penso”.
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Si sbagliava, Pangani è ancora una meta, anche se defilata. Ma non è questo che interessa Waugh. Lui finge di scrivere una libro per eventuali turisti di cui non gli importa nulla; il titolo stesso è probabilmente una provocatoria finzione, l’impalcatura per raccontare, quasi tra le righe, un mondo che tramonta. Sa bene che ormai, all’altezza degli Anni Sessanta, sta cambiando tutto. Suda, fatica e si diverte, ma quello che vede non è la natura, è la fine di un impero, di una società bianca che vive ormai in un sottile senso di provvisorietà. Non mancano le allusioni ai movimenti indipendentisti, ma come emerse per caso da qualche chiacchiera davanti a un bicchiere di whisky; e così i fallimenti del governo laburista (a lui detestato) per provare un colonialismo dal volto umano e lanciare bizzarri e disastrosi piani di sviluppo.
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In certi casi al lettore italiano molti riferimenti appena accennati alla realtà politica di allora potranno sembrare criptici, ma non è questo che conta nella scrittura magnifica di un affascinante, irresistibile antipatico. Alla fine, quasi a ricordare come si renda conto benissimo della situazione, ma abbia deciso di non affrontarla esplicitamente, Waugh si esibisce in una straordinaria excusatio non petita, che magari è la chiave del libro – e il riconoscimento del turismo quale grande finzione dei suoi tempi: “È nobile espiare i peccati dell’umanità per interposta persona in una cella da eremita.In mancanza di un simile rimedio, permettetemi di accettare con gratitudine le cose buone che il mondo ancora offre e, vi prego, non cercate di imputare a me la colpa di ciò che sfugge totalmente al mio controllo”.
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