“Eccomi” di Jonathan Safran Foer, caso editoriale di quest’autunno, e “Dove la storia finisce”, il nuovo romanzo di Alessandro Piperno, sono un esempio indubitabile di una comune fiducia nel romanzo. Entrambi libri costruiti con cura artigianale, sono realizzazioni antitetiche e complementari dello stesso tema…

Sono usciti quasi contemporaneamente in libreria, paiono due romanzi a specchio e rappresentano quantomeno una sensibilità comune. Sono entrambi costruiti con cura artigianale, forti di una grande consapevolezza letteraria, e nello stesso tempo ingenui: anche se parlare di ingenuità per Dove la storia finisce di Alessandro Piperno (Mondadori) e Eccomi di Jonathan Safran Foer (Guanda) può sembrare bizzarro.

Piperno è uno degli autori italiani più consapevoli della “forma” romanzo. Se è ingenuo lo è rispetto alla tradizione e all’idea che sia, al fondo, riproponibile: analisi psicologica, cura estrema dei dialoghi, culto della efficacia realistica attraverso soprattutto il trattamento ironico e persino comico.

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Safran Foer, dal canto suo, pare non porsi nemmeno il problema: per lui il romanzo è un attraversamento della vita, l’aria che si respira, il periplo della propria e dell’altrui esistenza. L’autore americano ama indubbiamente le proprie creature, Piperno esercita su di esse la massima crudeltà, restituendo al lettore una nativa (dunque ingenua, almeno nel senso in cui ne parla Giorgio Ficara in Lettere (non) italiane, da poco pubblicato per Bompiani) fiducia nella struttura aleatoria del romanzo in un momento in cui tutte le narrazioni paiono per qualche verso esaurite se non esauste. I tre romanzi precedenti (Con le peggiori intenzioni, Persecuzione e Inseparabili, quasi una trilogia) ci hanno abituati a un pensiero narratologico “forte”. E forse per questo Dove la storia finisce è stato accolto, per ora, da recensioni caute, che non vanno molto al di là del riassunto: segno evidente che si tratta di un testo per molti versi spiazzante.

Non per gli ambienti, né per i personaggi (questa volta nel senso di una complessa fusione tra una famiglia ebraica e una cattolica romana, in tutta l’estensione del termine) ma forse per un cambiamento di tono. Dalla comicità sarcastica all’ironia con venature di tenerezza, lo scrittore romano dà l’impressione di aver mutato atteggiamento, nel senso di una ferocia rattenuta, indebolita, persino complice. Rovesciando la citatissima massima di Tolstoj, Piperno sembra volerci dire – con sorridente indulgenza – che le famiglie infelici non lo sono affatto in modo sempre diverso. Quelle ebraiche, anche se nel caso degli Zevi,  ti insegnano “a non vergognarsi di appartenere al genere umano”, paiono esserlo inevitabilmente allo stessa maniera, “sempre lì a espiare chissà quale colpa remota”. Risultato, tutti continuano incappare in quelli che potremo definire lapsus semiconsci: spiritosi, brillanti, disperati, comici, dagli effetti imprevisti. Proprio come avviene, curioso effetto di simultaneità, con Safran Foer.

I due libri sono un esempio indubitabile di una comune fiducia nel romanzo, ma non solo. C’è, effetto del caso o dell’urgenza della cronaca, anche una vistosa somiglianza strutturale. Un mondo privato, conflittuale e pettegolo, sostanzialmente benestante e colto anche se assai tormentoso, viene azzerato da un evento esterno di terrificante portata: nel caso dell’americano un terremoto e la conseguente rovina di Israele, nel caso di Piperno la bomba che distrugge il ristorante di uno dei protagonisti, Giorgio, figlio di primo letto dell’inaffidabile Matteo, e fa strage di amici e parenti.

alessandro piperno

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Siamo a una presa d’atto che la realtà travolge la finzione e diventa essa stessa una metafora del narrare oggi, in questo tempo, o all’inverso è la finzione che semplicemente esercita come sempre la propria costitutiva ingenuità?

In Safran Foer, pur nella convivialità esistenziale dei protagonisti, l’evento ha una portata apocalittica, che spazza via il quotidiano e lo proietta sulle tragicità del mondo. In quello di Piperno l’apocalisse è tamponata, ambigua, sottratta allo scenario storico (non è certo che siano stati terroristi antisemiti a far esplodere il locale, potrebbe anche trattarsi di una vendetta privata) e riportata proprio a quel quotidiano più o meno infelice che pareva aver cancellato.

Il commento ultimo alla scomparsa di Federica, la donna energica e pragmatica che “tiene insieme” tutto e tutti, in lotta perenne con la fuga gravitazionale dei sentimenti (“Niente di meglio di una cerimonia funebre per elucubrare sulla vita”), non è distante da quello di Safran Foer, quando Jacob, come Ulisse, deve sopprimere il cane. “Argo muore contento. Il suo padrone è finalmente tornato a casa” dice il veterinario. “Ma dopo aver sofferto così tanto”, risponde Jacob ormai definitivamente voce dell’autore.

Piperno si chiede se Giorgio quando alla fine decide, apparentemente senza un motivo, di trasferirsi in Israele, davvero non poteva far altro. Safran Foer chiede sostanzialmente chi ci sta mettendo alla prova, ed eventualmente, perché. I due romanzi sono realizzazioni antitetiche e complementari dello stesso tema. E le domande (posto che la letteratura pone domande) non sono, va da sé, intercambiabili.

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L’AUTORE – Mario Baudino, classe ’52, è un giornalista, saggista e poeta. Scrive per il quotidiano di Torino La Stampa, dove ogni venerdì esce una sua rubrica intitolata Cartesio. Il suo ultimo romanzo, pubblicato da Bompiani, è il thriller letterario Lo sguardo della farfalla (qui un estratto e i particolari sulla trama)

baudino

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