Come si sente chi ama un malato terminale e gli è accanto? Se lo chiede la scrittrice Francesca Barra, in un sentito intervento autobiografico
La prima volta che ho visto Darinka senza la sua montagna di ricci sciolti sulle spalle, è stato luglio 2015. Io conducevo in Onda su la7 e lei aveva appena avuto un intervento. Sono scappata al Policlinico così com’ero, senza pensarci due volte. Con i miei capelli lunghi, lucidi, biondi, in ordine grazie alla piega del parrucchiere.
Truccata per la diretta.
Insomma, fuori luogo. Ed è stato l’inizio di due anni in cui qualsiasi cosa facessi io fossi fuori luogo. Anche nel sentirmi felice.
Comunque, così come quando all’università ci raccoglievamo i capelli per non sudare, ho preso una penna, grattando nel fondo della mia borsa da Mary Poppins e li ho sollevati alla meno peggio.
Fuori luogo sì. Ti senti fuori luogo ogni istante. Quando mandi un sms in cui racconti come hai fatto per venti anni, la tua vita, improvvisamente frivola rispetto alle quotidiane battaglie che deve sopportare chi fa ripetute chemio, attende risultati, si opera, deve scegliere una parrucca che sostituisca i capelli che ha sempre amato.
E pensi: “Ma che sto raccontando? Penserà che sono egoista?”.
E allora inizi a chiedere sempre, per prima cosa: “Come stai?”.
Ma anche in questo caso, che penserà chi riceve ogni giorno un messaggio in cui la prima cosa è informarti sul suo stato di salute?
Fuori luogo.
Ti senti fuori luogo se modifichi il tuo atteggiamento. Se smetti di mandare sms sulla tua vita frivola. Perché l’ultima cosa che vuole la tua amica, è essere esclusa dal tuo disordine quotidiano. Lo sai, la conosci. Non vuole essere trattata da malata. Con sensibilità sì, sempre, ma come sempre.
Però un mio sms non è più stato immediato. l’ho studiato, cambiato, tagliato, ponderato i toni le parole. Per esempio ho eliminato dal vocabolario frasi come:” Mi sento morire”. Non ho raccontato più della volta in cui ho avuto una febbre che mi ha bloccata a letto. Se la sciatica non mi ha fatto camminare. Se dopo il cesareo i punti tiravano. Non ho più condiviso progetti a lungo termine. Ho eliminato un po’ di sogni da raccontarle. Di obiettivi difficilmente raggiungibili. Anche se fino in fondo una scadenza non la conoscevo.
E nessuno te la dice. L’ho cercata spesso, lo ammetto. Su Google. Digitavo domande assurde. Come: cosa si prova dopo la chemio. Durata di vita. Reazioni a questo o a quell’intervento. E i risultati erano sempre di un sito che si chiama personal trainer credo di ricordare.
Ma ho anche interrogato tutti i medici che conoscevo. Qualcuno mi ha aiutata a capire, altri mi hanno delusa. Ho provato anche tanta rabbia: possibile che nel 2017 si possa morire ancora di cancro al seno? Possibile che ancora si rimandino le visite, ci siano file interminabili per prenotare una ecografia?
So tante cose di Darinka, ma la più importante è che non voleva morire. Fino all’ultimo si è aggrappata con disperazione alla speranza. “Finchè respiro non posso perdere tempo a farlo con paura.” E non mollava. Proprio no. Perché la vita per lei era proprio “soffrirò morirò, ma intanto sole, vento, vino trallalà.”
Anche se era esausta, sfinita, lei avrebbe voluto vivere. E difronte a questo io non trovo un senso, non una spiegazione metafisica, figuriamoci religiosa. No. Non c’è. Il cancro è un bastardo e basta. E lei non meritava nemmeno un giorno di quel dolore martellante.
Darinka è la D che ho tatuato a 38 anni sul polso, senza pensarci due volte, pur non avendo mai amato i tatuaggi. Ma lo volevo, perché mentre conduceva la sua battaglia contro il tumore al seno, non ha mai un solo istante perso fiducia, mostrato rancore, rabbia nei confronti di nessuno. Anche se in questi anni di cure e delusioni, e speranze, ed energia spremuta fino all’osso, l’hanno privata della gioia di diventare madre, di poter condurre la vita libera e selvaggia, che amava tanto e che si è sforzata di rappresentare al meglio fino alla fine dei suoi giorni terreni.
Ho perso la mia persona, la mia amica da venti anni. L’unica vera custode dei miei segreti, la persona che non ha mai giudicato un mio errore, ha sempre mostrato indulgenza nei miei confronti in modo spudorato. Di Parte. Perché mi amava per davvero e sapeva dirmelo. “Ti amo” mi ha scritto nell’ultimo messaggio. E “mi manchi.” Lei garantiva per me. Questo fa la tua persona.
E poi Darinka era dolcissima, pur essendo la donna più forte che abbia mai conosciuto. Perché la bontà è una dote per eroi. Non una scelta a intermittenza.
Darinka ha sorriso sempre, fino all’ultimo. Perché non è stata un solo istante della sua esistenza aggressiva. E per questo l’ho scelta, fra tante. Perché il lato su cui aveva deciso di marciare era quello giusto anche quando sembrava a ridosso di un burrone. Era coraggiosa e gentile come l’eroina di una favola. La mia favola. Io non riesco a dire tante parole oggi, ma so che non avrò mai più nessuno come lei. Che non la voglio un’altra lei. Perché non esiste. Anche perché è ancora qui il suo posto ed è ingombrante.
Darinka ora è una supernova. Dicono che in poco tempo sia in grado di illuminare molto più di quanto può fare il sole per tutta la sua esistenza. E’ così. Lo so. Un’esplosione che scombussolerà il cielo e lo renderà più bello. Anche se per poco.
E ho sbagliato tutto sì, in questa altalena di miei inutili interrogativi.
Perché sopratutto fino all’ultimo ho creduto a ciò che voleva farci credere: al miracolo che potesse guarire. E così mentre lei era in ospedale, progettavamo di andare ad Ibiza. Illudendoci che sì, fosse possibile, anche con la bombola dell’ossigeno. Ci siamo cascate. Ci ha fatto bene.
Qualcosa cambia nella grammatica sentimentale di chi deve prendersi cura della felicità della persona che sta soffrendo. Che è su un ring costante, spietato. Senza regole logiche.
Ma come si fa non te lo spiega nessuno. E allora sbaglierai. Io ho sbagliato. Parlerai a voce troppo alta in un momento in cui vorrebbe solo silenzio.
Interromperai i suoi pensieri, quando finalmente vuole sfogarsi perché hai paura che ceda, che pianga, che possa intristirsi e tu no, vuoi solo che sia felice. Vuoi tenere un nastro di seta, emotivo, sempre teso. Travesti le tue espressioni, mascheri la tua paura perché la sua è prioritaria. E non la deve intravedere in te. Non vuoi che si abbandoni al terrore.
Ma tu, quel terrore, fino in fondo non lo conosci.
“Darinka cos’è la paura?”
Gliel’ho chiesto quando mi ha detto di averne e tanta.
Perché ero stanca di non capire. Di non poterla aiutare fino in fondo.
Ma non l’ho capito, perché non l’ho provato. Se non quando su quel taxi, in ritardo di venti minuti, l’ho perduta per sempre. Mi è mancato il respiro. Deve essere stato così.
L’AUTRICE E IL SUO NUOVO ROMANZO – Originaria di Policoro, in Basilicata, Francesca Barra è laureata in Scienze della comunicazione, a Roma. È conduttrice, inviata, autrice televisiva e radiofonica. Nel 2012 ha pubblicato Giovanni Falcone un eroe solo, edito da Rizzoli. Con Garzanti ha pubblicato Il mare nasconde e stelle, Verrà il vento e ti parlerà di me, e ora torna in libreria (sempre con Garzanti) con L’estate più bella della nostra vita: un romanzo ambientato nella sua terra d’origine, la Basilicata, dove si intreccia la storia di Giulia e Lorenzo, due fratelli che in Basilicata non ci vogliono proprio andare, men che mai a passare l’estate, anche se la loro famiglia è originaria della regione.