Grazie a due libri, (la raccolta “Per te io morirei e altri racconti perduti” e “Sarà un capolavoro – Lettere all’agente, all’editor e agli amici scrittori”) viene fuori un tracciato nitido della parabola di ascesa e declino della carriera e dell’esistenza di Francis Scott Fitzgerald, la cui arte nasce sempre dalla contingenza (il matrimonio con Zelda, i debiti, le cure) – L’approfondimento de ilLibraio.it sull’autore de “Il grande Gatsby” e “Tenera è la notte”

Il calderone del mondo editoriale, nel suo ribollire di esperimenti inediti e successi garantiti, a volte rigurgita accostamenti insoliti, tagli diversi degli stessi ingredienti, in un miscuglio di sicuro effetto, quando ben dosato. Quel che conta, si sa, è l’ingrediente magico, che in questo caso porta la ben nota firma di Francis Scott Fitzgerald.

Per te io morirei e altri racconti perduti

A poche settimane di distanza, infatti, il panorama letterario italiano ha visto emergere due perle della produzione dello scrittore, riproiettato in questi ultimi anni – complici le logiche commerciali di massa (connubio Di Caprio–Luhrmann in testa) – nello splendore dei suoi roaring twenties. La prima, Per te io morirei e altri racconti perduti (Rizzoli), raccoglie scritti degli ultimi cinque anni ripescati dagli archivi di Princeton, in cui erano rimasti confinati per decenni da ingrati rifiuti: il volume, curato da Anne Margaret Daniel e tradotto in Italia da Vincenzo Latronico, è uscito in parallelo negli Stati Uniti e in Europa, equo compenso ai fedeli fitzgeraldiani dei diversi paesi.

La seconda, Sarà un capolavoro (minimum fax), vede invece Leonardo Luccone ricostruire scrupolosamente un epistolario lungo vent’anni; protagonista indiscusso ne è il triangolo autore-editor (Maxwell Perkins)-agente (Harold Ober), con aperture rare e preziose agli interlocutori più intimi – Zelda, ovviamente, e l’adorata figlia Scottie.

Francis Scott Fitzgerald minimum fax

Ne viene fuori un tracciato nitido della parabola di ascesa e declino della carriera e dell’esistenza stessa di uno scrittore che ha fatto della compenetrazione assoluta di questi due piani una cifra stilistica, un modus vivendi e operandi. Uno sforzo archivistico che forse non ci dice nulla di nuovo di un personaggio su cui sono stati versati fiumi di inchiostro (da lui stesso in primis), ma che per la prima volta ci restituisce la continuità della sua vicenda umana nell’insieme, senza la mediazione piena di grazia di personaggi fittizi, solo nell’immediatezza e nell’urgenza del suo esprimersi.

Del resto, come recita l’incipit del racconto Le donne di casa (Febbre): «E per quanto riguarda quel trucchetto tanto di moda ultimamente – “ogni riferimento a persone realmente esistite è puramente casuale” – be’, non vale neanche la pena di provarci.»

Nelle lettere le date parlano: la selezione è infatti scandita in cinque momenti –Primi successi (1917-22); Gatsby e l’Europa (1924-1929); Picco e depressione (1930-1934); Tracollo (1934-1937); Le luci opache di Hollywood (1937-1940) – in cui si passa dal “Gentile signor Perkins” al “Caro Max”, dal «Sarà un capolavoro» che dà il titolo al libro a «Io parlo con l’autorità del fallimento» che quasi lo conclude. In un vortice rapidissimo, che rende quasi impossibile prenderne atto senza scossoni. Un po’ com’era successo a Scott.

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Le date raccontano, quindi, e con loro le cifre: il paradosso del vangelo numerico dietro le pagine della letteratura. Con i primi successi, infatti, i pagamenti raggiungono soglie impensabili; ma Fitzgerald non abbassa per un attimo la guardia: pur considerandosi uno degli scrittori più grandi del suo tempo, sa che “la gente interessata agli artisti non è interessata alle persone che ‘hanno fatto’ qualcosa”. E sono proprio l’esigenza costante di concretezza, di una fattualità che ruota intorno alle sfaccettature del possibile e le accoglie, il rifiuto dell’ozio e della “fiacchezza semi-intellettuale in cui annaspo insieme al resto della mia generazione” a marcare con decisione sempre crescente ogni lettera.

A fungere da comune denominatore alcune parole chiave: denaro, successo; solo più tardi arrivano debito, malattia. E quell’insoddisfazione inquieta, l’essere stufo, onnipresente dagli albori di una promessa costretta a flettere il proprio talento ai dettami del profitto e il proprio orgoglio alla consapevolezza dello svendersi in “fiacche e dolorose imitazioni di letteratura popolare”.

La coscienza della grandezza epica di questo sacrificio – quella di cui scriverà a Scottie molto tempo dopo – è appunto una conquista tardiva che passa per la travagliata accettazione del crollo, cementata dal rifiuto degli ultimi anni di soccombere alle etichette di leggerezza e sentimentalismo glamour affibbiategli dal pubblico fin dal 1925: “Bisognerebbe essere un vero mago o un imbrattacarte per continuare a sfornare un prodotto identico per tre decenni”. (a Kenneth Littauer, direttore di Collier’s, 1939)

La scrittura della necessità, come la definisce Luccone, è tutta lì, in un’arte che nasce sempre dalla contingenza (il matrimonio con Zelda, i debiti, le cure) e di questa si alimenta, nel tentativo ostinato di svincolarsi dalle catene di due ingombranti tiranni: le riviste prima, Hollywood poi (“nessun individuo con una seria reputazione letteraria ha avuto successo laggiù”, scriverà a Ober).

Per tornare alla raccolta di Rizzoli, un racconto come Viaggiare in due non è altro che l’inevitabile eco creativa di questa frustrazione: impossibile non riconoscere nella decisione del protagonista di abbandonare il cinema l’ennesimo soffio di esasperazione di un autore dilaniato per un’esistenza intera dall’esigenza di scrivere per (soprav)vivere e dalla volontà, imperiosa, di vivere per scrivere.

Con amarezza, nella primavera del 1936 Scott annota per Ober: “Un tempo scrivevo per me – adesso scrivo per gli editor, perché non ho mai tempo per pensare a ciò che mi piace davvero o per cercare qualcosa che mi piaccia. È come se uno tirasse l’acqua dal pozzo goccia a goccia, perché ha troppa sete per aspettare che il pozzo si riempia. Magari avessi la fortuna di potermi fermare! […] Mi sembra di dover combattere troppo per trovare un po’ di pace interiore.”

Ma Francis Scott Fitzgerald aspirava davvero alla pace interiore? Era ciò che aveva in mente nel suo ostinato corteggiamento a Zelda, condannandosi a qualcosa di “assolutamente intollerabile, la mancanza di felicità” – “Stavi dando i numeri e lo chiamavi genio – io mi stavo distruggendo e lo chiamavo come veniva”, le confessa in un’accoratissima lettera del 1930 (l’unica che trova spazio nella raccolta)? Pensava a questo quando spianava la strada all’amico Hemingway per poi macerare nell’invidia per il suo successo (prassi del “metodo Fitzgerald”)? La voleva quando rigurgitava veleno su quegli stessi racconti che oggi ci vengono messi tra le mani come un tesoro perduto?

Sappiamo cosa il pubblico, deluso e annoiato, pretendeva da lui al momento del tramonto; ma al di là di quel successo e quel denaro sempre lì, parole ricorrenti che significano tutto e niente, cosa si aspettava Fitzgerald dal suo lavoro e, di conseguenza, dalla vita?

L’uscita parallela dei due volumi inquadra la questione da una prospettiva nuova: lo Scott editor di se stesso prima che scrittore, lo Scott redattore e grafico improvvisato, lo Scott incombente in ogni singola tappa della filiera del libro (più dello stesso Perkins) si offre a noi nella sua essenza di intellettuale-operaio (Luccone), di autore che più di ogni altro, e con un certo anticipo sui tempi, ha fatto della letteratura un mestiere. “In bilico sul filo teso tra arte e commercio”, chiosa Daniel nella postfazione alla raccolta di Rizzoli. E la consacrazione autentica alla più meticolosa delle missioni è essa stessa risposta a una dolorosa necessità – forse, in fondo, l’unica:

«Nei miei libri ho tentato a più riprese di rappresentare il rimpianto di non essere mai stato bravo come volevo» (25 luglio 1936 a John O’Hara).

Lo sa lui e lo sanno tutti, se proprio in quegli anni Edith Walton del New York Times scrive in riferimento a Taps at reveille: “Ormai è un tremendo luogo comune dire che il lavoro di Fitzgerald raramente è degno del suo talento. Purtroppo, però, questa frase fatta è vera. La maestria stilistica di Fitzgerald è così assoluta – una penna rapida, sicura, nitida, solida – che anche le sue opere più insignificanti sono nobilitate dalla sua perizia tecnica”.

E se, al netto delle recenti mode, a più di ottant’anni di distanza siamo ancora qui a ribaltare gli archivi per scrostare etichette, a scavare tra i personaggi più secondari di una produzione vasta e frammentaria per ritrovare nuove fitzgeraldiane declinazioni della vita, dell’amore, del mondo – insomma, se siamo qui, “barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato” un motivo c’è. Ed è ancora una volta Fitzgerald, con una lucidità critica di raro spessore, a offrircelo su un piatto d’argento, scrivendo a Ober nel 1935 a proposito di Tenera è la notte: “Penso che la mia storia possieda una longevità naturale”.

La longevità epica – ci consenta il prestito – della devozione alla scrittura.

 

 

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