Jacopo Cirillo, sceneggiatore e produttore, è in libreria con “L’animale che ride. Atlante universale della comicità”. Su ilLibraio.it riflette sul futuro della stand-up comedy in Italia, che ha visto la sua ascesa inevitabilmente frenata dalla pandemia: “Quello che manca è la continuità, la possibilità di programmare, di inventare, di arrivare a nuovi pubblici, di guadagnare. Se mi guardo attorno, però, vedo che nessuno si è arreso, nessuno pensa nemmeno di arrendersi”. La stand-up comedy diventerà l’unica comicità possibile?

La stand-up comedy diventerà l’unica comicità possibile?

Nel 2015, lo storico e filosofo Yuval Noah Harari ha scritto un libro, Homo Deus, in cui prefigura il futuro prossimo dell’umanità e la sua evoluzione attraverso la robotica, l’intelligenza artificiale e l’ingegneria genetica. La quarta di copertina dell’edizione italiana contiene un passaggio molto straniante, leggendolo ora: “Nel XXI secolo, in un mondo ormai libero dalle epidemie, economicamente prospero e in pace, coltiviamo con strumenti sempre più potenti l’ambizione antica di elevarci al rango di divinità“.

Durante le stagioni di spettacoli a cavallo tra il 2018 e il 2019, il movimento della stand-up comedy italiana partiva dalla stessa consapevolezza e con lo stesso ottimismo di Harari: in un mercato ormai libero da vecchi cabarettisti e cachet pagati in nero, coltiviamo con canali social sempre più potenti l’ambizione contemporanea di elevarci al rango di comici di Zelig. L’ascesa era, ed è, innegabile, e non solo per la maggior affluenza di pubblico, dato certamente importante ma relativo – riempire una sala da cinquecento persone non è poi così tanto, di per sé, ma se prima facevi fatica a mettere insieme quaranta biglietti, la direzione è sicuramente quella giusta.

Gli indicatori fondamentali della crescita della comedy di stampo anglosassone in Italia sono stati piuttosto altri due. Anzitutto il fatto che molti comici con un passato legato al cabaret e all’epoca d’oro della televisione generalista abbiano iniziato ad aggiungere, nelle locandine dei loro spettacoli, le tre paroline magiche stand, up e comedy; l’hanno fatto perché avevano capito in fretta che quell’etichetta stava funzionando molto bene e riusciva ad attrarre pubblico di per sé. Del resto, solo qualche anno prima, gli under 30 che conoscevano anche solo il termine inglese si contavano sulle dita dei pochi artisti che ne afferivano dichiaratamente.

Il secondo indicatore, come sempre succede nella transizione da un movimento amatoriale a uno (semi)professionale, è stata la nascita di nuovi middlemen, figure di mediazione e raccordo tra artisti e locali: le agenzie di booking e management. Altrascena, Aguilar, The Comedy Club, Ovolollo, per citare le maggiori, più tantissime organizzazioni cittadine create per portare la stand-up un po’ dappertutto. Inoltre, storici organizzatori musicali come DNA Concerti e Vivo Concerti si sono affacciati alla finestra, pazienti, aspettando che qualche giovane comico si distinguesse un pochino più degli altri per assicurarselo, forti della loro caratura decennale.

Per dirla in termini satirici: se i soldi sono la merda, le agenzie si fanno mosca.

Dunque: siamo a fine ’19, l’ambiente è elettrico e l’atmosfera gravida di soddisfazioni prossime venture. Tutti scalpitano per organizzare ed esibirsi e i locali vogliono la stand-up comedy, sia perché è diventata cool, sia perché costa poco, rispetto ad altri tipi di spettacoli, richiedendo di fatto solo un microfono funzionante e una luce puntata.

Pochi mesi dopo, a marzo 2020, proprio mentre chiudevano la Lombardia, mi trovavo a Utrecht, in uno dei più importanti festival comedy europei, a stringere mani e abbracciare sconosciuti, senza ancora conoscere il significato della parola “droplet”. Nei quattro giorni olandesi, passati per la maggior parte a inveire al telefono, abbiamo dovuto annullare oltre cinquanta date di artisti che rappresentavamo. Stava crollando tutto, proprio nel momento in cui l’aria aveva quel friccicore tipico dei salti di qualità.

E adesso? Dopo le prime settimane di incertezza e scoramento, molti hanno provato a inventarsi qualcosa di diverso, ovviamente online, per riempire l’imprevista stagnazione del tempo che ci avrebbe accompagnato per i mesi successivi. Spettacoli collettivi su Zoom, one man show da casa propria, podcast su Spotify, talk show sulla comicità con grandi ospiti su YouTube e Twitch – ricordiamo il bellissimo Tutti a casa di Francesco Lancia – e addirittura un programma tv su Rai4, Pigiama Rave, ideato e condotto da Saverio Raimondo da casa sua e, appunto, in pigiama. E così gli inverni erano sistemati, grazie alla voglia, la volontà e, scusate per la parola, ormai diventata inascoltabile, la resilienza di artisti e operatori culturali.

Guardandosi indietro, che cosa ha funzionato davvero? Trecento persone che pagano quattro euro per guardare un comico esibirsi dal loro divano valgono come trecento biglietti più relative consumazioni in un club? E il movimento della stand-up comedy avrebbe retto l’urto o il grande lavoro fatto in precedenza sarebbe stato tutto inutile? Era difficile dirlo allora ed è altrettanto difficile dirlo adesso, mentre ci apprestiamo a salutare l’estate per avventurarci verso un inverno ancora ignoto, gravido però di possibili chiusure, capienze più che dimezzate e poca voglia di uscire di casa.

Le estati sono andate molto meglio, com’è ovvio: moltissimi spettacoli all’aperto, anche in posti decisamente improvvisati, e un’affluenza di pubblico soddisfacente, abbastanza almeno per garantire una minima sopravvivenza economica e artistica.

Ora però siamo a settembre, e rispetto a un anno fa aleggia un pessimismo strisciante, simile alla disillusa consapevolezza che no, nemmeno stavolta si potrà pensare di tornare alla normalità e riprendere il discorso lasciato in sospeso. Quello che manca, quello che ci manca è la continuità, la possibilità di programmare, di inventare, di arrivare a nuovi pubblici, di guadagnare. Se mi guardo attorno, però, vedo che nessuno si è arreso, nessuno pensa nemmeno di arrendersi. Come novelli Sisifo tutti continuiamo a organizzare, bloccare date e location, al limite si cancelleranno all’ultimo, come sempre più spesso succede, e si ricomincerà da capo, guardando di nuovo la futura primavera come una promessa di normalità, e di sostentamento.

Anche perché la stand-up comedy in Italia, nata come manifesto programmatico di un gruppo di comici, e proseguita come etichetta cool da appiccicare un po’ a tutto quello che fa ridere, troverà ad aspettarla un mercato e un pubblico con un ricambio generazionale formatosi su YouTube e Netflix, per cui la stand-up non è solo un tipo di comicità, ma l’unica comicità possibile.

L’AUTORE E IL LIBRO – Nato a Faenza nel 1982, laureato in Discipline Semiotiche a Bologna, Jacopo Cirillo (in copertina, nella foto di Alberto Cocchi, ndr) è autore, sceneggiatore e produttore (e in passato ha ideato anche il sito letterario Finzioni). Ha fondato Aguilar, la prima agenzia di management e di produzione di stand-up comedy in Italia, con cui ha prodotto i primi tre Netflix Comedy Special italiani.

Sulla comicità o, meglio, sul motivo per cui l’homo sapiens è l’unico animale a poter ridere, è incentrato il suo libro L’animale che ride. Atlante universale della comicità (Harper Collins Italia). Nel suo saggio Cirillo si chiede se esista una teoria unitaria che abbracci tutto lo scibile del comico e spieghi perché e di che cosa si ride.

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Qual è la differenza tra comicità e umorismo? Come funziona il dialogo tra un comico e il suo pubblico? Che atmosfera e quali rapporti di forza si creano in un comedy club? Ma soprattutto: cosa diavolo è la stand-up comedy?

Passando da Henri Bergson a Woody Allen, da Umberto Eco a Sharknado, Cirillo analizza varie forme di umorismo e riflettendo sui contesti deputati alla risata, con particolare attenzione al fenomeno stand-up comedy e ai suoi protagonisti italiani e internazionali.

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