Nell’agosto 1991 in Russia tutto cambia, mentre un immenso Paese, l’ex Urss, cade a pezzi: “Gente d’agosto”, avventuroso, amaro e a volte picaresco romanzo di Sergej Lebedev (giornalista, geologo e scrittore che ha già dedicato un libro ai gulag), è un’opera capace di scavare nel passato sovietico, tra segreti e ambiguità. L’autore mostra, nei suoi aspetti clamorosi e in quelli minutamente quotidiani, come funziona una cleptocrazia. Un libro attuale, nei giorni dell’invasione dell’esercito di Putin in Ucraina

“In agosto, nella piazza della Lubjanka, dove Feliks di Ferro si era schiantato con un rumore sordo sull’asfalto, la sensazione generale era che in quel preciso momento stesse nascendo un nuovo Paese”. Feliks Dzeržinskij era stato il fondatore e il capo della Čeka, la famigerata polizia segreta sovietica divenuta poi il Kgb; la sua statua venne abbattuta al culmine della rivolta popolare contro il tentato golpe del 1991 che aveva lo scopo di deporre Gorbaciov. Sventolò la nuova bandiera russa, la vecchia Urss pareva seppellita per sempre, e il giovane protagonista di Gente d’agosto, il nuovo romanzo di Sergej Lebedev pubblicato da Keller (nella traduzione di Rosa Mauro), sognò in quel momento una nuova storia, una nuova vita, una nuova era per lui e per i coetanei, quella generazione che ha battezzato con il titolo del libro.

Che sia un titolo a chiave è evidente, ma nella lettura di questo romanzo avventuroso, amaro, talvolta picaresco, rimane per così dire sottotraccia, come un leit motiv il cui senso vero si scopre solo al disvelamento finale, che è altrettanto segreto e anzi pare appena suggerito, come un messaggio in codice. Siamo di fronte a un’opera capace di scavare, attraverso un linguaggio che ora si accende di disperazione ora si raffredda improvvisamente in una apparente neutralità narrativa, in un sistema di cancellazioni per quanto riguarda il passato sovietico e la sua eredità di “maledizione postume e di ferocissime vendette non compiute”, sepolta in un segreto inammissibile, “sospesa nell’aria in attesa di trovare il modo di concretizzarsi”; e che si conclude narrativamente con un’ambiguità altrettanto segreta, si direbbe criptata.

Nel ’91, Lebedev (giornalista, geologo e scrittore che ha già dedicato un romanzo al gulag, Il confine dell’oblio, anch’esso pubblicato da Keller nel 2018) aveva solo 10 anni. Per lui l’abbattimento della statua, il golpe, persino la Russia di quella seconda rivoluzione non fanno parte di un’esperienza vissuta se non per echi infantili e ricordi di famiglia, ma la generazione che ne è stata protagonista è oggi adulta e disincantata nella Russia post-sovietica. Ed è soprattutto quella che, in un gioco di rispecchiamenti tra passato e presente, ci viene raccontata attraverso la figura di un personaggio al limite del fantastico, un “cercatore”, anzi da un certo punto in “il Cercatore” di morti, degli uccisi e degli scomparsi, dei deportati e dei dispersi rimasti rigorosamente fuori dalla memoria collettiva, dalla “arca della narrazione”.

Lo diventa quando la nonna gli consegna una sorta di diario, dove c’è la storia della famiglia da prima della rivoluzione, ma da cui è accuratamente espunta la memoria del nonno Michail: un fantasma, di cui nulla in apparenza si sa e di cui nulla si dice. Il protagonista capisce che i silenzi sono la cosa veramente importante, e li viola più o meno avventurosamente arrivando al ritratto di un “demone sovietico”, un avventuriero che aveva stregato la nonna ma che nello stesso tempo era stato da lei allontanato. Lei ne aveva desiderato la morte, scrive, e il diavolo l’aveva infine esaudita.

Di qui in poi, il personaggio che dice io nel romanzo trova finalmente il suo vero mestiere, in una Russia caotica di miserie e arricchimenti, di traffici svariatissimi e quasi sempre illegali: lui sarà il disseppellitore delle memorie negate. I clienti del resto non mancano; per loro va a cercare le tracce dei padri e dei nonni scomparsi in giro per l’immenso Paese e nelle repubbliche formalmente indipendenti, come ad esempio il Kazakistan.

È testimone della guerra in Cecenia, dove nel disordine generale trova accampate a un passo dal fronte le madri dei soldati dispersi in cerca di notizie, tollerate dagli ufficiali che fingono non esistano; impugna le armi per una spedizione in Carelia, dove un ex secondino ha costruito nelle rovine di un carcere abbandonato la sua prigione privata, in cui richiude i vagabondi che gli consegnano nei paesi circostanti mentre alleva cani ferocissimi; si ritrova a condividere avventure con militari dai ruoli quantomeno ambigui e infine scopre di essere sprofondato anch’egli in quel mondo senza legge, fatto di ricatti, di tradimenti, di avidità senza limiti, di violenza e di orrori: “in quella massa di sangue” dove “era ormai impossibile distinguere il puro dall’impuro, la sofferenza realmente patita da quella immaginaria”.

Lebedev ci racconta, nei suoi aspetti clamorosi e in quelli minutamente quotidiani, come funziona una cleptocrazia, ovvero la dimensione in cui “l’Urss continuava a esistere come somma di destini spezzati, di deportazioni che avevano mutato la vita a intere nazionalità, di confini tracciati col sangue, di beni confiscati e trasferiti ad altri. Una somma inimmaginabile di reciproche ingiustizie, rese ancor più crudeli dal fatto che i ruoli potevano cambiare, la vittima diventare carnefice e viceversa”.

Gente d'agosto di Sergei Lebedev

È un viaggio all’inferno, il suo. Non siamo ovviamente in grado di dire quanto metaforico, però sembra molto ben documentato, tra sarcasmo, indignazione e pietà. E poi c’è il calendario, l’ossessione dell’agosto: persino il parto della nonna avviene in quel mese, così come la sua morte (recitando Puškin, la parte dell’Onegin con il sogno terribile di Tatjana preda dei diavoli). Ma non solo: nell’agosto del ’37 – ricorda un personaggio –  cominciarono le grandi purghe staliniane (“La morte era giunta. Era sospesa su letti e culle, saliva negli ascensori, viaggiava in auto e in treno, sollevava la polvere sulle strade sterrate, sellava i cavalli, controllava l’arma e il nastro delle macchine da scrivere”); e nell’agosto del ’99 Vladimir Putin viene nominato primo ministro.

L’autore si guarda bene dal citarne il nome, si limita a un’allusione; a raccontare cioè che alla radio ascolta per caso la notizia di un’incursione armata in Daghestan, commentata come segue: “L’esercito russo respingerà l’attacco dei terroristi. Il primo ministro assicura che saranno prese le misure più drastiche”. E già questo ci dice molto del clima che si respirava in Russia mentre Lebedev scriveva, e che viene evocato nel romanzo.

Intanto, siamo proprio alla fine, il Cercatore, che si illudeva di prendersi gioco dei servizi segreti ritenendoli ormai inoffensivi, scopre di essere stato avvolto proprio da essi nelle spire del complotto e del tradimento. Il “nuovo Paese” non era che un’illusione. E il “libro della discordia, il manoscritto di sciagure” evocato nell’incipit non è solo il memoriale della nonna, pur “redatto con buone intenzioni”. È questo stesso, disperato e si direbbe non poco dostoevskiano romanzo.

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