“Grand Union” è, come Zadie Smith, tante cose insieme: l’autrice, che ha fatto della molteplicità la sua cifra stilistica, qui si frammenta, dividendo la sua anima in diciannove racconti, sempre spostandosi di qua e di là per essere sicura di aver esaminato ogni possibile angolazione, ogni possibile punto di vista… – L’approfondimento

Se potesse vivere più di una vita, Zadie Smith ne sceglierebbe almeno cento. La scrittrice inglese, che già nel privato si barcamena tra Londra e New York, tra scrittura e insegnamento, ha fatto della molteplicità la sua cifra stilistica. Autrice di cinque romanzi, almeno due raccolte di saggi, più diverse altre pubblicazioni sulle maggiori riviste letterarie americane, Smith (nella foto di Dominique Nabokov, ndr) guarda il mondo a occhi ben spalancati, sempre spostandosi di qua e di là per essere sicura di aver esaminato ogni possibile angolazione, ogni possibile punto di vista.

Proprio nelle raccolte di saggi – in italiano Cambiare idea, per minimum fax, e Feel Free, per SUR – sono più evidenti che mai i suoi principi guida: l’essere umano non è scolpito nella pietra, può costantemente espandersi, migliorarsi, inglobare in sé nuove esperienze – letteralmente, cambiare idea. È nel poter indossare abiti diversi che Smith identifica la libertà.

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E quindi in Grand Union, uscito per Mondadori nella traduzione di Silvia Pareschi, Smith si frammenta, dividendo la sua anima in diciannove racconti, alcuni inediti, altri già usciti sul New Yorker, su Granta o su The Paris Review. Non c’è un filo conduttore evidente, un momento si affronta la dipendenza dall’eroina e un divorzio doloroso, nel momento dopo ci si trova in una società distopica dove un ragazzino, grazie alla realtà aumentata, sovrappone un cruento videogioco alla landa desolata di una spiaggia inglese dove una bambina aspetta di andare a visitare la sorella morta.

Un inedito trio formato da Michael Jackson, Elizabeth Taylor e Marlon Brando improvvisa un bislacco on-the road lasciandosi alle spalle una New York avvolta in una nube di fumo, presumibilmente post 11 settembre. Una pittrice cade in depressione quando un altro artista le fa notare che l’ispirazione e il caos del Village sono incompatibili, una professoressa si interroga sull’identità tra il passato e il presente, e come basti superare il limite per essere cancellati – una satira sull’ambiente accademico e culturale dove si lavora aspettando di cogliere in fallo il prossimo.

Grand Union_Zadie Smith

 

Smith non è solo un’autrice per cui l’identità è una spina nel fianco (in originale, sul Guardian, è “pain in the arse”), è una studiosa nell’accezione più positiva del termine: il suo desiderio di indossare altre pelli non è dettato da un desiderio di fuga, o da una sensazione di disagio, quanto dalla necessità della conoscenza.

In questo si mescolano la saggistica e la fiction: da una parte la ricerca, dall’altra l’invenzione che permette l’accesso a realtà sconosciute. La sua voce si aggiunge al dibattito in corso sullo scrivere solo di quello che si conosce in prima persona: Smith pare essere dell’opinione che nella narrativa non si possa porre quel tipo di limitazioni – anche per liberarsi delle aspettative altrui che la vorrebbero solo scrivere romanzi su ragazze di origine giamaicana cresciute a Willesden quando lei stessa è in continua ebollizione e scoperta: sicuramente esiste un problema di rappresentazione – e nell’accesso ai mezzi di comunicazione- e, come scrive su The New York Review of Book, in un mondo ideale si ovvierebbe alle improprie narrazioni ampliando la varietà delle voci e delle descrizioni. In questa aspirazione alla totalità delle esperienze non vuole però dimenticare che i romanzi sono finzione, e nella finzione ci si può ritrovare e riconoscere anche senza che ci sia una perfetta identità tra la persona che scrive, la persona che agisce sulla pagina e la persona che legge: e partendo da una considerazione di base, cioè che la persona che scrive è “gente con voci nella [nostra] testa, e un bel po’ di inappropriata curiosità sulla vita degli altri”, è alla persone che legge che spetta il giudizio finale.

Non è tuttavia una contraddizione, specie per un’autrice che trae la sua forza creativa dalle contraddizioni, che i racconti più riusciti della raccolta siano proprio quelli dove emerge più forte che in altri la sua esperienza personale: Per il re è una serata parigina dove un donna che potrebbe benissimo essere lei cena con un vecchio amico, riflette sulle relazioni, sul tempo, sull’invecchiare, e poi ricorda un episodio visto sul treno che non riesce però a riferire all’amico. Nell’assoluta semplicità e naturalezza della vicenda si ritrovano le sue ossessioni e il suo metodo di studio, dialettico, ispirato; come quando, davanti a un piatto di formaggi, la conversazione passa dal sesso diurno come “tempo sprecato” – per Smith il tempo è il luogo della ricerca, del lavoro – al tempo della donna che, quando diviene madre, diventa scansione dei tempi dei figli, tempo che invece il piacere sessuale può annullare.
Il tempo ritorna in Fiume lento, dove una famiglia inglese come tante si rinchiude in un resort dove può galleggiare indeterminatamente in una piscina circolare, “color Facebook”, dove l’acqua è l’unica cosa che scorre, pigramente, in tondo, trascinando i villeggianti nell’illusione che non ci si bagna due volte nello stesso punto, mentre fuori dall’albergo uomini africani passano le giornate chiusi nelle serre per raccogliere pomodori sempre più succosi, rossi come la luna nel sud della Spagna.

Ogni domanda può avere più risposte: e se molti dei racconti sono metafore stratificate, e ci si rifiuta addirittura di nominare “l’avversario“, in una delle storie più reali, dove l’autrice ricostruisce la vicenda di Kelso Cochrane, un giovane originario di Antigua accoltellato per le strade di Notting Hill in una notte di primavera da un gruppo di bianchi razzisti che non vennero mai formalmente incriminati, la narrazione pulita dei fatti si interrompe per una considerazione: e se show don’t tell, tanto amato dalle scuole di scrittura, fosse un approccio disonesto più che un modo di comunicare una realtà che nelle sue premesse è incomunicabile? In Kelso decostruito Smith non si limita a mostrare. Chiamare per nome qui è fondamentale, non solo l’assassino, mai condannato, che nelle lettere che compongono “Patrick Digby” contiene già il male che sta per fare, ma lo stesso Kelso, che nella testimonianza del colpevole venne indicato solo con variazioni della spregiativa n-word. Lui che non ha potuto avere un ultimo pensiero, perché “gli ultimi pensieri sono per i letti di morte dei borghesi russi”, nelle pagine di Smith ricomincia la sua ultima giornata, con i suoi riti del sabato, la sua Livvy, le persone urlanti allo Speaker’s Corner di Hyde Park; diventa storia di tutti, perché, come urla un “giovane marxista” al suo funerale, rifiutarsi di entrare nelle storie degli altri e la più grande vittoria del capitalismo.

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Grand Union è, come Smith, tante cose insieme: una giunzione ferroviaria, la prima bandiera statunitense, il canale più lungo di Inghilterra che collega Londra a Birmingham, e verso cui si incammina una donna che ha parlato un po’ con la madre morta in una tavola calda sopra la stazione della metro, vedendo scendere infine dal lato in ombra delle Blue Montains – catena montuosa più importante della Giamaica – la fila ininterrotta delle donne che l’hanno preceduta, divenendo parte di lei senza imprigionarla, rendendola, a tutti gli effetti, libera.

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