Dario Ferrari, in libreria con i “La ricreazione è finita”, opera che racconta con sarcasmo e amarezza l’università italiana e, allo stesso tempo, il brigatismo degli anni Settanta, riflette sul racconto dei “cosiddetti anni di piombo” da parte di scrittori e registi: “Mi pare che in quel periodo ci sia qualcosa di costitutivamente indicibile, di necessariamente eccedente rispetto a quello che si può rappresentare, e che la questione fondamentale sia il modo che si sceglie per mostrare quell’eccedenza. E mi pare che i punti di forza delle moltissime e floride produzioni culturali che ruotano attorno a quel periodo vadano cercate negli scarti che mettono in tensione i fatti della Storia con questo qualcosa di indicibile…”

Mentre mi accingevo a scrivere un libro ambientato (anche) negli anni Settanta, ho provato a raccapezzarmi, con una certa fatica, su quel periodo, in particolare nella sua accezione di anni di piombo (o, per usare l’espressione canonica, “i cosiddetti anni di piombo”), e tra le varie altre cose ho ascoltato un podcast introduttivo, La bomba in testa. En passant, l’autore Nicolò Porcelluzzi diceva che a fronte di una grande produzione sull’argomento in Italia non è ancora stato scritto nessun Grande Romanzo sugli anni Settanta.

Questa affermazione mi è tornata in mente vedendo la serie di Bellocchio Esterno Notte, che a suo modo lo è, un Grande Romanzo sul terrorismo e sugli anni Settanta, benché scelga di raccontarlo soprattutto dalla prospettiva dell’establishment democristiano, e benché ovviamente non sia un romanzo.

Mentre cercavo di farmi chiarezza sulla questione (com’è che questo grande romanzo non è un romanzo, com’è che il racconto del terrorismo funziona meglio se osservato nel riflesso su una classe dirigente impotente e su uno Stato crepuscolare), ho pensato che i punti più rivelatori, e più veri, della serie fossero proprio certi suoi scarti inattesi e surreali: la canzonetta Porqué te vas? che accompagna il rapimento di Moro, i sogni cristologici di Paolo VI in cilicio, Andreotti che si limita a vomitarsi addosso e a restare muto e impassibile, mera maschera. Anche qui, come già in Buongiorno, notte, poi, Bellocchio sceglie di chiudere offrendo uno squarcio su un finale alternativo, come se la storia in sé non fosse sufficiente a raccontare quegli anni, e occorresse creare un differenziale con ciò che avrebbe potuto essere.

Ecco, mi pare che negli anni di piombo ci sia qualcosa di costitutivamente indicibile, di necessariamente eccedente rispetto a quello che si può rappresentare, e che la questione fondamentale sia il modo che si sceglie per mostrare quell’eccedenza. E mi pare che i punti di forza delle moltissime e floride produzioni culturali che ruotano attorno a quel periodo vadano cercate negli scarti che mettono in tensione i fatti della Storia con questo qualcosa di indicibile. Non parlo di romanzi che ambiscano a essere in qualche modo il Grande Romanzo degli anni di piombo, ma in generale di quei romanzi che li hanno affrontati o che in essi hanno ambientato le loro storie, e che in modi diversi e originali mettono in scena un inevitabile scarto rispetto al semplice racconto storico.

Non è un caso, per esempio, che anche il bel romanzo di Andrea Pomella, Il Dio disarmato, da una parte cerchi di aumentare fino al parossismo la risoluzione con cui viene fatta l’anatomia dei tre minuti di via Fani, e al contempo senta il bisogno, in questa ricostruzione storica minuziosa e fattuale, di andare a cercare le radici di questo evento in un Male radicale, metafisico, che alligna nella terra stessa: una finzione narrativa che irrompe a creare un’interferenza necessaria con il realismo a cui si informa il romanzo. E mi pare che risponda a un’esigenza simile anche l’evoluzione del dittico sulle BR di Antonio Iovane, iniziato con un racconto di fiction ambientato in un contesto reale e che ha trovato più completa realizzazione solo in un’opera più ibrida, La seduta spiritica, che non è fiction e non è storia, ma meditazione sempre filtrata, sempre sospesa, che non può che continuare a interrogare sé stessa e i fatti. (E mi pare interessante notare come entrambi questi autori si rifacciano esplicitamente al Cercas di Anatomia di un istante, non solo trasponendo nella nostra storia quell’approccio, ma anche per condividere tutte le meditazioni e le esitazioni teoriche che lo accompagnano).

Alcuni altri esempi. I Wu Ming, a cui il tema è evidentemente congeniale, nel loro perseguimento di una letteratura generosa e strutturalmente eccessiva, scelgono per parlare degli anni Settanta la metafora ufologica, da cui la necessità di affrontarli tramite un Oggetto Narrativo Non Identificato.

Ma anche in narrazioni più tradizionali l’impressione è che l’oggetto continui a sfuggire, e che non si possa dire se non per vie indirette.

È così per esempio che l’opera di Alessandro Bertante Mordi e fuggi, che pur dichiarandosi “romanzo delle BR” si interrompe in realtà prima che cominci la vera e propria attività terroristica, quasi a voler lasciare l’attività più violenta oltre il dicibile; o il romanzo di Marta Barone, che tratta quegli anni alla ricerca della verità sulla vita del padre nella Torino militante e finisce per accettare una sostanziale impossibilità di capire davvero quell’individuo. Anche il romanzo d’esordio di Nadia Terranova, Gli anni al contrario, dà l’idea che la lotta di quegli anni, incarnata dalla figura del padre, possa dirsi solo fuori campo, tra il sentito dire e il lessico e la mitologia famigliari.

La mia impressione è quindi che, pur in oggetti artistici diversi, ci sia una difficoltà a dire quegli anni senza qualche forma di rifrazione, e che la scelta di questo filtro sia proprio ciò che rende queste opere capaci di comunicare qualcosa, senza assumersi l’insensato onere di spiegarlo.

Da questo punto di vista il romanzo che più mi sembra avvicinarsi al Grande Romanzo sugli anni di piombo è Il tempo materiale di Giorgio Vasta, che sceglie programmaticamente di raccontare una storia terribile, una favola dell’orrore, elaborando una metafora al contempo efficacissima e respingente su ciò che quegli anni sono stati, ovvero qualcosa di inestricabilmente innocente e feroce, in cui vige una totale asimmetria tra premesse e conseguenze: un’oggettiva sproporzione che solo una metafora radicale è in grado di adombrare.

La ricreazione è finita dario ferrrari

L’AUTORE E IL LIBRO – Nato a Viareggio, Dario Ferrari ha studiato Filosofia a Pisa, dove ha conseguito un dottorato di ricerca. Ha esordito nella narrativa con La quarta versione di Giuda (Mondadori, 2020). Ora esce per Sellerio il suo nuovo romanzo, La ricreazione è finita, opera che racconta con sarcasmo e amarezza l’università italiana, il baronaggio e le umiliazioni a cui studenti e ricercatori sono continuamente sottoposti, fino a spingerli ai gesti più tragici. Ma si tratta anche di un romanzo sul brigatismo degli anni Settanta e sulla memoria storica, che rielabora in chiave ironica l’atmosfera di quegli anni, i sogni di quei ragazzi che credevano in un futuro diverso, ma che sono stati travolti dalla Storia.

Dario Ferrari

Il protagonista, Marcello, ha una vita insoddisfacente: a trent’anni vive ancora con la madre a Viareggio, finalmente laureato in Lettere dopo troppi anni fuori corso non ha progetti concreti per il futuro. Il padre detesta l’idea che abbia scelto di studiare una materia inutile, che si atteggi a intellettuale, e così, un po’ per rivalsa e un po’ per dimostrare di essere all’altezza, decide di provare il dottorato. I nomi dei vincitori del concorso sono già noti da tempo, ma lui partecipa lo stesso alla prova scritta e, grazie a un incredibile colpo di fortuna, riesce a diventare ufficialmente un dottorando del Chiarissimo professor Sacrosanti, potente luminare dell’Italianistica. Il professore ha idee precise per il suo nuovo protégé, uno studio dell’opera di Tito Sella, “terrorista italiano”, per Marcello un perfetto sconosciuto. Da quel momento, inizia un lungo percorso di ricerca che lo condurrà a ricostruire la vita di Sella e il brigatismo viareggino, identificandosi sempre più con il terrorista, mentre continuerà a scontrarsi con le assurdità, i giochi di potere e i linguaggi di un mondo che conosce poco, quello dell’accademia, che lo umilierà e lo metterà alla prova senza sosta, trasformandolo sempre più profondamente

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