“Guarda le luci, amore mio” di Annie Ernaux è un reportage sul mondo dell’ipermercato e della grande distribuzione. La poetica dell’autrice francese, che ha sempre riservato alle questioni di classe un’attenzione particolare, si presta a fare di questo luogo un soggetto letterario di tutto rispetto, non fosse altro che per la forza significante della merce nel dar forma alla vita. Nel bene e nel male

Tentativo di esaurire un luogo di provincia 

Pubblicato da L’Orma Editore e tradotto da Lorenzo Flabbi, come tutta la bibliografia di Annie Ernaux, l’ultimo lavoro dell’autrice francese è un reportage sul mondo dell’ipermercato e della grande distribuzione, un diario, tenuto dal novembre 2012 al settembre 2013, che monitora le escursioni di Ernaux all’Auchan di Clergy.

In Guarda le luci, amore mio il focus dell’autrice è totalmente estroflesso, in quella prosa asciutta e analitica (écriture plate) che la contraddistingue e che ora, rispetto a lavori precedenti, si impegna a lasciare da parte le motivazioni private dell’io che scrive (quel noi, collettivizzato) per farsi osservatrice attenta, “superficie liscia sulla quale si riflettono le persone”, per registrare la vita in questa miniatura della società che è l’ipermercato.

Subito Ernaux si chiede come mai l’ipermercato non sia mai entrato a far parte della grande letteratura, almeno non fino ad ora.

Da un lato, dice, c’è il fatto che fare la spesa è un’azione che tradizionalmente pertiene alle donne e perciò, è “tradizionalmente invisibile”: “ciò che non ha valore nella vita, non ha valore neanche nella letteratura”.

Dall’altro, c’è una questione di abbassamento della soglia d’accesso al mestiere di scrittore: laddove, fino agli anni 70, gli scrittori francesi “erano per la maggior parte di estrazione borghese e vivevano a Parigi, dove i supermercati non esistevano”. “Non riesco a immaginare,” continua Ernaux, “Alain Robbe-Grillet, Nathalie Sarraute o François Sagan spingere un carrello per fare la spesa; George Perec sì, ma potrei sbagliarmi”.

Guarda le luci, amore mio

A veder comparire il nome di Perec in un testo dove la presenza dell’autore si era sentita già dalle prima righe (forse, persino già dall’intento che precede la soglia del libro), sembra esserci la confessione del debito che Ernaux indubbiamente deve all’autore francese. Uno fra i primi a temporalizzare lo spazio urbano, a “nominarlo, tracciarlo, come gli autori di portolani che saturavano le cose di nomi di porti, di nomi di capi, di nomi di cale,” scrive Perec in Specie di spazi, “finché la terra non finiva con l’essere separata dal mare soltanto da un nastro continuo di testo.”

L’infraordinario” di Perec (l’opposto dallo straordinario, dell’evento), che lo scrittore registra con meticolosità nel suo Tentativo di esaurire un luogo parigino, è ciò di cui Ernaux fa tesoro in questo lavoro, portandolo oltre la sua soglia di sperimentazione, da lezione metodologica a vero sforzo documentaristico. Non a caso, Guarda le luci amore mio si apre con un elenco (forma prediletta da Perec), quello dei supermercati che ricorda più vividamente e con più affetto: il Carrefour dell’avenue de Genève, l’Intermarché à La Charité-sur-Loire, il Major sulla collina di Sancerre – “scegliamo i nostri oggetti e i nostri luoghi della memoria, o piuttosto è lo spirito dei tempi a decidere ciò che vale la pena esser ricordato”.

Perec si era posizionato per quattro giorni consecutivi (dal 18 al 20 ottobre 1974,) ai tavolini di un caffè della place Saint-Sulpice, taccuino alla mano, descrivendo il volo dei piccioni, le macchine rosa, le camionette della polizia, gli autobus pieni o vuoti che gli sfrecciano davanti. “In confronto a ieri cosa c’è di cambiato?” si chiede, “a prima vista sembra tutto uguale, forse il cielo è più nuvoloso”.

Qui, la contrainte oulipiana è descrivere strettamente ciò che si vede da uno specifico punto di vista (la piazza per Perec, il supermercato per Ernaux), ripetersi, se necessario, elencare, se opportuno, sempre registrare ciò che si può. “Come al tavolino di un bar, ma senza l’obbligo di consumare” scrive Ernaux della sala d’attesa all’entrata dell’Auchan, “si può veder sfilare l’operosità del mondo. Dimenticare se stessi nella contemplazione”.

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A giorni alterni, a volte a distanza di settimane, Ernaux si reca all’Auchan, e nel suo diario annota sempre “l’ingresso”, l’intensità delle luci, il campione umano, la musica, i negozi attorno aperti o chiusi. Con lei, anche noi, pervasi da un sentimento diverso di volta in volta – l’eccitazione febbricitante del Natale con l’iper così agghindato da sembrare “una cattedrale”, oppure i postumi, tristi, delle feste – , facciamo un giro fra gli scaffali. La prosa, esatta, a volte è così semplice da risultare banale, sembra assottigliarsi per far posto alla noia e alla ripetitività dell’ipermercato (cestino rosso di plastica con le ruote o carrello?). Altre, invece, sorprende con delle frasi fulminanti, e vediamo il soggetto come qualcosa che riesce a ispirare dell’autrice considerazioni e pensieri che si ergono oltre gli scaffali dell’Auchan.

L’ipermercato è elevato a oggetto con dignità letteraria anche attraverso la retorica che esso stesso possiede, e grazie alla quale è in grado di esercitare un’influenza nel consumatore.

Per Ernaux, tutto là dentro “parla”. Ci sono addirittura “corsie psicoterapeutiche”, quelle dei prodotti biologici della farmacia, dove la gente passa a immaginare di poter redimere i propri peccati gastronomici, gli stravizi, le corsie “del sogno e del desiderio, della speranza” dove ci si immagina sani e longevi.

Ernaux nota come l’iper conosca benissimo i suoi consumatori. Nei cartelli che strillano i prezzi stracciati della carne – MENO DI UN EURO AL CHILO – c’è quello che l’autrice chiama il “linguaggio umanitario di seduzione”, fingere di parlare direttamente al cuore e alla pancia al popolo: vogliamo mangiare di più e spendere meno, vogliamo sapere che abbiamo fatto un affare, ma soprattutto, non vogliamo andarcene a mani vuote. Nessuno, insomma, vuole prendere “l’uscita senza acquisti” dove “lo sguardo dell’addetto alla vigilanza sulle mani, sulle tasche rende colpevoli di fatto di non aver comprato nulla.” “Nel mondo dell’ipermercato e dell’economia liberale”, scrive Ernaux, “amare i bambini significa comprar loro più cose possibili”.

La poetica di Ernaux, che ha sempre riservato alle questioni di classe un’attenzione particolare, naturalmente si presta a fare dell’ipermercato un soggetto letterario di tutto rispetto, non fosse altro che per la forza significante della merce nel dar forma alla vita – nel bene e nel male.

Ne Il Posto, Ernaux raccontava della voragine che la sua educazione (e dunque la salita di un gradino sull’ascensore sociale) aveva aperto fra lei e i genitori, proprietari di una piccola epicerie, gente per cui il lavoro era quello manuale, mentre studiare e leggere, meramente un vezzo. Attraverso la sua storia personale, Ernaux ci parla di alienazione generazionale e di classe, dell’imbarazzo che questa inevitabile separazione ci provoca (imbarazzo per le proprie origini – ora viste come modeste, semplici -, ma anche imbarazzo per un vuoto che non si può più colmare). Quella vergogna che nell’omonimo romanzo dell’autrice (La Honte), successivo a Il Posto, elabora come il distacco dalla provincia, ammettendo di aver provato imbarazzo per la propria famiglia.

Se però ai tempi della giovane Ernaux era la mancanza di un linguaggio condiviso tra lei – insegnante, colta – e il padre – la cui paura di usare la parola sbagliata lo faceva spesso restare in silenzio – nella realtà di Ernaux adulta è la merce a fornire un linguaggio livellante e accogliente per parlare a tutti. Se ne Il Posto, il problema era, appunto, la difficoltà di trovare la propria collocazione, in Guarda le luci amore mio si descrive un luogo in cui, fra gli scaffali del discount o quelli dei prodotti esclusivi, c’è un posto per tutti. Da un certo punto di vista, Ernaux riprende “l’eredità che, quando [è] entrata nel mondo borghese e colto, avev[a] dovuto posare sulla soglia” e ci racconta, nei variegati avventori dell’iper, l’evoluzione di quel mondo provinciale e piccolo borghese, il salto da epicerie alla grande distribuzione.

La “fantasticheria” della sua infanzia era quella di saccheggiare un negozio deserto, racconta: “prendere tutto quello che volevo, dolci, giocattoli, accessori per la scuola”. Questo sogno da “figlia della guerra” è quello che tutt’ora “aleggia fra le corsie degli ipermercati. Imbrigliato, rimosso, considerato infantile, colpevole”. Un sogno, per alcuni, nato dall’inedia che si è vissuta o da quella presente, ma che in ogni caso, nella spersonalizzazione della bottega e della gastronomia dentro l’ipermercato, trova un’audacia maggiore, una fame bulimica più acuta.

L’iper parla a tutti, accoglie borghesi e proletari a ogni ora del giorno. Eppure, può darsi che chi fa la spesa nel reparto deimangia a poco” (un’espressione di Thomas Bernhard per descrivere il proletariato), non si incroci mai con chi compra biologico, o può essere che due estranei dalle vite molto diverse ma dalle abitudini simili si incrocino e non si riconoscano affatto, che non si vedano neppure.

In un libro uscito alla fine dello scorso anno, No. 91/92: notes on a Parisian commute, l’autrice Lauren Elkin propone un diario iniziato nell’autunno del 2014, per l’appunto proprio dove finisce quello di Ernaux, in cui registra sulle note del suo iPhone la vita parigina vista dall’autobus 91/92, durante il tragitto che fa da casa per andare al lavoro. Elkin, che pure si occupa di osservare una comunità, quella dei passeggeri dell’autobus, nota che esse sono un gruppo di persone “going together, while companionably ignoring each other.” Una sorta di principio liberale in cui la libertà sta nel rispettare l’anonimato dell’altro, visto che l’autobus, proprio come il supermercato, in fondo è un luogo che si adopera per necessità.

Questa definizione è calzante anche per lo spazio analizzato da Ernaux, dove l’eterogenea massa di consumatori gode dell’anonimato, avendo tutti sottoscritto un patto di totale discrezione. La stessa Ernaux, riconosciuta da una fan all’Auchan, dice di aver ritrovato “la [sua] tranquillità di cliente anonima” solo dopo aver salutato la donna ed essere passata a un altro piano, dove nessuno sa chi è.

Solo quando due scale mobili (una che sale, e una che scende) s’incrociano, e gli avventori sono “ordinatamente imprigionati in direzioni opposte, ci si permette di incrociare gli sguardi”, di scrutarsi l’un l’altro, complice l’impermanenza di quel momento in cui, qualche secondo dopo, il volto dell’altro sarò scomparso sopra o sotto di noi.

L’iper, come scrive Rachel Cusk in Aftermath, “è sempre aperto: le sue porte automatiche non si fermano mai,” emana contemporaneamente “benessere e alienazione”. Per la maggior parte del tempo, la vita lì dentro è un teatro che freme, luccica: “ci si può scordare che non si è soli, o che lo si è”. Occorre andare presto la mattina, nota Ernaux, per sentire “il silenzio di morte della merce a perdita d’occhio”, per vedere i consumatori camminare piano, avvolti da un torpore “sprigionato dalla visione pressoché irreale dell’accumulo di cibo e oggetti”. Ernaux la chiama “vertigine della simmetria”.

In media, un ipermercato contiene 50,000 oggetti di cui un consumatore medio, come lei, ne potrà utilizzare circa un centinaio. Questo significa, spiega Ernaux, che “ne restano 49,000 che ignoro”. Ciò che si prova, alla fine di questo testo, è un forte senso di spaesamento, dovuto all’abbondanza e l’inconoscibilità di fondo dell’ipermercato, per sua natura oggetto opaco ma pullulante di vita – “collettiva, sottile, specifica”. Torna in mente Perec: il tentativo di esaurimento (sia nel significato di finire, che in quello di spegnere, privare di energia, stancare), che è e deve rimanere tale, uno sforzo a vedere piuttosto che comprendere, “perché vedere per scrivere è vedere altrimenti”, è distinguere.

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