Un approfondimento su “La donna gelata” di Annie Ernaux, un libro che assume un significato ancora più importante letto “in questo marzo di lotta contro un virus che si ostina a restare e che tra le sue vittime in maniera indiretta conta anche l’altissimo numero delle donne rimaste senza lavoro e delle violenze inflitte da compagni e mariti tra le mura di casa”. Citando molte altre opere iconiche dell’autrice francese, come “Memoria di una ragazza” e “L’evento”, Giusi Marchetta ci parla del ruolo della donna nella società, condannata ancora a essere moglie, madre, custode della casa. “Pur ribadendo quanto la situazione attuale sia molto migliorata rispetto a periodi in cui alle donne non venivano riconosciuti i diritti politici e civili, forse si sentirebbero in dovere di tenere in conto anche la stanchezza di chi, nel 2021, invece che gioire perché si ritrova a metà strada vorrebbe sentirsi arrivato al traguardo…”

“Tutta la mia storia di donna è la storia di una scala scesa con riluttanza”.

A distanza di giorni dalla lettura de La donna gelata di Annie Ernaux (pubblicato nel 1981 e tradotto nel 2021 da L’orma editore) è questa frase ad accompagnarmi più spesso in questo marzo di lotta contro un virus che si ostina a restare e che tra le sue vittime in maniera indiretta conta anche l’altissimo numero delle donne rimaste senza lavoro e delle violenze inflitte da compagni e mariti tra le mura di casa.

Annie Ernaux La donna gelata

A renderla così persistente non è la fitta che si prova incrociandola nell’ultima parte del libro, quando la storia di donna della scrittrice è stata già raccontata e vissuta, ma il timore che si tratti di una minaccia incombente. Non sotto forma di profezia, però; non è un presagio che appartiene a un futuro incerto: è già qui, è dappertutto.

Annie Ernaux nasce nel 1940 a Lillebonne, nella provincia francese, da due genitori che vivono (sopravvivono in certi periodi) grazie all’attività di famiglia: un locale in cui si va per bere e per chiacchierare con annessa drogheria in cui fare la spesa. La divisione tradizionale di questi spazi, (bar per gli uomini, bottega per le donne), non definisce la routine coniugale di marito e moglie. Al contrario. È lui a cucinare per il pranzo della figlia dato che la donna a quell’ora è al negozio. Le volte in cui tocca a lei si fa in un attimo, con pochi piatti per “doverne lavare di meno” e non si spolvera perché è uno spreco, una lotta impari contro un velo di polvere destinato a tornare. Le domeniche pomeriggio, dedicate dalle altre mogli al rammendo e al cucito, le appaiono sprecate se non si ha un libro tra le mani. Ed è così che Annie bambina cresce, tra le merende al bar e i pomeriggi piovosi in salotto: guardando la madre che ignora la casa e si mette a leggere.

Non è una rivoluzione ma una forma di resistenza sì. Attorno a questa donna c’è “il modo in cui la guardano gli altri, più potente di qualsiasi libro”: così se lo sguardo di sua figlia riconosce in quel semplice atto un’iniziazione ai romanzi e al mondo immaginato, quello di Hilda, l’amica, non può che notare con disappunto la polvere che trionfa sui mobili. Sembra a tutti gli effetti un atto di accusa nei confronti di un vuoto d’azione: la madre, è evidente, non fa il suo, non pulisce. La ragazza non dubita che, pur essendoci in casa tre abitanti, quel compito spetti a lei, alla madre; quello che Hilda non vede, ma che Annie invece intuisce benissimo, è che non si tratta affatto di un vuoto, di non fare qualcosa, ma della scelta di fare qualcos’altro. Pur essendo una moglie, quindi, sua madre sceglie di non dare il suo tempo alla cura della casa ma alla lettura e quindi a se stessa. Una scelta che adesso, a causa di Hilda, le appare sbagliata, egoista.

“Certe donne sposano case” scrive Anne Sexton, ma quando non lo fanno, dice Ernaux, subito arriva il mondo a  chiederne conto.

Annie Ernaux, L’altra figlia

La descrizione spietata e assieme caldissima dei genitori non è nuova per chi segue l’autrice da anni. Ne Il posto Ernaux recita l’elogio funebre di un uomo tranquillo, legato al suo bar e al suo giornale, a espressioni e a gesti di cortesia dettati dall’abitudine e da un senso di dignità piccolo borghese cui non era possibile sottrarsi; ne La donna gelata questo ritratto torna in vita e il padre riprende il suo posto dietro al bancone come per una magia che lo vuole ancora lì (una magia solo per il pubblico italiano che legge in traduzione perché la prima edizione francese de La donna gelata precede di due anni La Place). In Una donna, invece, leggiamo il lungo addio a una madre di cui ci si accorge con stupore che possa morire: nella rievocazione di questo lento abbandono, le pagine che raccontano la malattia della donna si alternano a scene del passato, diventando tessere di un mosaico che, ricomposto, ci permette di vedere molto chiaramente questa madre che legge e che accompagna la figlia in libreria, le promette che potrà leggere Furore quando sarà grande abbastanza e così facendo le insegna ad aspettare un altro tipo di amore.

Dai genitori, dalla classe sociale, dalla cittadina immersa nella routine della fabbrica e della campagna proviene dunque un’educazione piena di sfumature, come se Ernaux descrivesse una fonte di acqua naturale che poco alla volta viene inghiottita da canali che attraversano i campi e la guidano in una sola direzione: quella dei ragazzi. Tutto la spinge a cercarli o a esserne cercata: la curiosità del sesso e di quello che comporta (“viaggiare e fare l’amore: credo che nulla mi sembri più bello a dieci anni”), l’idea di sé e del suo corpo (“un corpo sempre sotto sorveglianza, alla berlina, brutalmente sezionato”), l’emulazione delle compagne alla ricerca di un amore che diventi un marito (“è finita madre mia, i tuoi insegnamenti si sono persi nel vento”).

Riscrivendo parte della sua storia o, per meglio dire, affondandoci la penna, Ernaux ricostruisce tutte le aspettative tradite, le illusioni e le sorprese degli anni in cui libri e cultura sembravano non bastare per una ragazza e anzi potevano essere sacrificati nel tentativo di rendersi più appetibile al ragazzo di turno. Come un’onda che la colpisca senza riparo, la necessità di interagire con l’altro sesso in modo da apparire piacevole e attraente comincia a incunearsi tra la ragazza e la donna, risultando, per la bambina cresciuta dal padre in cucina e dalla madre che legge, una novità eccitante. Si inganna ma ancora non lo sa.

annie ernaux memoria di ragazza

“L’idea che tra i ragazzi e me ci fosse una disuguaglianza, un altro tipo di differenza rispetto a quella fisica mi era in fondo sconosciuta perché non l’avevo mai vissuta. È stato un disastro”.

La differenza infatti c’era, anche se saperla riconoscere non mette al riparo dal subirla. Personalmente non so dire se, per citare il poeta, il mostro ami davvero il suo labirinto, ma alla possibilità che lo si arredi e si passi le proprie giornate a pulirlo è dedicata la seconda parte del romanzo, quando un ragazzo diventa il marito.

In Memoria di ragazza, Annie Ernaux aveva descritto la scrittura come “il tentativo di sottrarsi alla piattezza e alla brutalità che caratterizzava il linguaggio del suo ambiente”. Eppure è attraverso un uso brutale della scrittura che descrive il suo primo rapporto: “Lui insiste forzando. Lei sente dolore. Dice di essere vergine come per difendersi o per giustificarsi. Grida. Lui la rimprovera”.

Ne La donna gelata questo tipo di rappresentazione non c’è. Anzi si avverte una dolcezza nel resoconto di un incontro, di una comunione di intenti e della decisione improvvisa e sbagliata in partenza di trovare un appartamento e sposarsi. Ci vuole qualche pagina poi, perché questa dolcezza lasci spazio alla messa in scena inquietante che coinvolge le rispettive famiglie, impazienti che la coppia rientri ufficialmente nell’alveo dei giovani perbene uniti dal sacro vincolo del matrimonio (“L’amore deve per forza portare da qualche parte”). La protagonista accetta, decisa a ignorare quello che sa del mondo: che da conviventi il lavoro domestico spetterà a lei come compito, a lui come atto occasionale di buona volontà; che il lavoro di lui sembrerà più importante del suo e che a quel lavoro sarà dedicato anche parte del tempo e dello spazio che prima avrebbe dedicato al suo; che una volta sposati alla casa si aggiungerà il bambino che va accudito e allattato e cresciuto dedicando anche a lui un tempo e uno spazio che prima sarebbe stato suo. Il marito può dare una mano, certo, ma senza esagerare: lavora, non riesce; se è in ferie ha il diritto di rilassarsi e poi in fondo, a dirla tutta, badare alla casa e al bambino non è compito suo.

Nessuno ti ha costretta.

È la cattiveria che mi è balenata in mente mentre Annie Ernaux raccontava la lenta discesa lungo la scala che la portava a una vita mutilata, ridotta. Quindi ha ragione: ogni volta che cerchiamo la chiave della gabbia, la voce del mondo subito accorre per sussurrare che quelle sbarre le abbiamo scelte del metallo che ci sembrava migliore.

Si tratta di una falsità, però. Nessuno ti ha costretta, a parte una pressione sociale e culturale che tradizionalmente ti hanno impedito di vivere la sessualità senza sensi di colpa e che ha utilizzato l’idea del matrimonio e della maternità come un’arma puntata sul tuo corpo. Nessuno ti ha costretta ma per anni il mondo ha giocato d’anticipo crescendoti con l’idea che lui era diverso, che tu eri diversa, che insomma su quella scala vi sareste mossi insieme. Mentendo, ovviamente.

Sono passati degli anni dal primo matrimonio di Annie Ernaux e qualcuno dirà che noi donne ne abbiamo fatta di strada ed è vero. Sarebbe bello però che i cantori della strada fatta leggessero libri come La donna gelata e L’evento, in cui la scrittrice ha raccontato l’atroce trafila compiuta per riuscire ad abortire in una Francia che non lo permetteva, e che conoscessero la vasta produzione di saggi sul femminismo che hanno affrontato dal punto di vista storico, sociologico e filosofico tutti gli aspetti relativi a quel cammino. Se lo facessero, pur ribadendo quanto la situazione attuale sia molto migliorata rispetto a periodi in cui alle donne non venivano riconosciuti i diritti politici e civili, forse si sentirebbero in dovere di tenere in conto anche la stanchezza di chi, nel 2021, invece che gioire perché si ritrova a metà strada vorrebbe sentirsi arrivato al traguardo.

C’è una traccia nascosta, comunque, nel libro di Annie Ernaux: si tratta di due figurine che nell’affresco del romanzo vivono di luce propria. La prima è la suocera della protagonista, laureata in scienze naturali, poi rimasta a casa a crescere tre bambini con la cura docile della madre perennemente gentile: nell’adorazione della famiglia si intravede la trappola da cui non solo non le viene in mente di poter fuggire ma che è si è costruita giorno per giorno attraverso l’amorevole gratitudine di figli, nuore e marito.  (“Una strana terra di donne sacrificali” scrive Edna O’Brien in Oggetto d’amore, parlando dell’Irlanda e, evidentemente, di tutta la Terra). Lei ride, porta il caffè al marito che lo comanda dall’altra stanza. “Non possiamo mica cambiarli”, dice.

Ebbene, se ci voltiamo indietro sul nostro percorso questa donna che ha sposato la casa la vediamo. È lei che ci sussurra ancora oggi che c’è troppa polvere sui nostri mobili.

Per fortuna accanto a lei vediamo un’adolescente, Brigitte, mentre parla in libertà di quello che vuole e le interessa. “Mia madre dice che non sono robe da piacere alle donne” dice a un Annie affascinata e con un sogghigno aggiunge “Chissenefrega, a me piacerà e basta”.

Certo, la strada che Brigitte compirà crescendo non sarà molto diversa da quella di tutte le altre; però leggere di lei e di quel pomeriggio in cui si è detta libera mi sembra il dono inestimabile di una letteratura che, se non può cambiare di per sé una società discriminante, può sempre decidere di raccontarla in tutte le sue sfumature.  Proprio come sua madre fa nel romanzo, Annie Ernaux ci consegna un’altra storia da portare sulle spalle, in attesa che, in una società più giusta, si realizzi un altro tipo di amore.

L’AUTRICE – Giusi Marchetta, nata a Milano nel 1982, è cresciuta a Caserta, poi si è trasferita a Napoli. Oggi vive a Torino dove è insegnante. Per Terre di Mezzo ha pubblicato le raccolte di racconti Dai un bacio a chi vuoi tu (2008), con la quale ha vinto il Premio Calvino, e Napoli ore 11 (2010). Il suo primo romanzo, L’iguana non vuole, è stato pubblicato nel 2011 da Rizzoli. Nel 2015 è uscito, per Einaudi, Lettori si cresce. Il suo ultimo romanzo è Dove sei stata, Rizzoli. Per Add ha curato il libro collettivo Tutte le ragazze avanti!

Qui tutti gli articoli scritti da Giusi Marchetta per ilLibraio.it.

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