Molto si è detto di “Guerra”, inedito di Louis-Ferdinand Céline. Quella dell’autore di “Viaggio al termine della notte” e “Morte a credito” è un’opera che, pur nella sua incompiutezza e per certi versi asprezza (e talvolta grazie a questa), ci consegna delle pagine bellissime. A dispetto del titolo, la guerra, in questo testo (in cui il sesso e la morte sono continuamente connessi) si vede solo nei suoi effetti…

L’immagine è quasi cinematografica: un uomo si sveglia in un campo di battaglia, il punto di vista è allo stesso tempo dall’alto e soggettivo, lo guardiamo a fianco ai corpi martoriati e insanguinati, ma insieme a lui vediamo sfocato, i rumori sono confusi: capiamo e ci muoviamo a frammenti, a tentoni, come fa il soldato sopravvissuto. È una scena a cui ormai tanta cinematografia hollywoodiana ci ha abituato; ed è così, per certi versi, che inizia Guerra, inedito di Louis-Ferdinand Céline, da poco tradotto in italiano da Ottavio Fatica per Adelphi. O almeno così inizia il testo che abbiamo fra le mani, perché dire cosa sia Guerra non è semplicissimo.

La storia è ormai nota: nel 1944 Cèline, all’anagrafe Destouches, fugge dal suo appartamento di rue Girardon a Montmartre per evitare di essere catturato in quanto collaborazionista di Vichy, e da quell’appartamento vengono trafugati una serie di manoscritti e dattiloscritti, circa sei mila fogli, arrivati alla fine (negli anni Ottanta) nelle mani di Jean-Pierre Thibaudat, con la promessa, tuttavia, di non renderli pubblici fino alla morte della vedova di Céline, Lucette Destouches (non per pudore: per non farla arricchire dalla vendita degli inediti).

Alla morte di quest’ultima (nel novembre 2019) il baule viene aperto e i fogli riconsegnati agli aventi diritto: fra queste carte ci sarebbe, oltre a Guerra, il romanzo inedito Londra (che Gallimard pubblicherà in ottobre), un manoscritto (incompleto) di Morte a credito, un porzione dell’incompleto Casse-pipe.

Guerra-Céline

Guerra è presentato dagli editori come un romanzo autonomo, datato 1934 e intitolato Guerra, sebbene nessuna di queste informazioni sia presente nel manoscritto. L’esigenza di offrire, in fretta, questo testo al pubblico non ha permesso un accurato lavoro filologico, e infatti più di uno specialista di Céline ha sollevato qualche perplessità, non solo davanti al titolo, ma soprattutto sulla datazione (e quindi sulla possibilità di considerare Guerra un lavoro autonomo): è stato proposto che si tratti di un episodio espunto da Viaggio al termine della notte oppure di un abbozzo di quel romanzo che poi non confluisce nella versione definitiva.

Quale che sia la risposta a questa annosa domanda, rimane che Guerra, pur nella sua incompiutezza e per certi versi asprezza (e talvolta grazie a questa), ci consegna delle pagine bellissime, e talvolta più dure e esplicite (soprattutto sul livello erotico) di Viaggio al termine della notte (di cui, nei fatti, va a riempire una delle molte ellissi).

Svegliatosi, quasi cinematograficamente, in quel campo di battaglia, Ferdinand Bardamu, prima arrancando e poi trasportato arriva in un ospedale dell’immaginaria città di Peurdu-sur-la-Lys. Qui si svolge tutta la (scarna) vicenda: la convalescenza, il rapporto con l’infermiera L’Espinasse, la conoscenza di Bébert/Cascade, poi fucilato come disertore, denunciato dalla moglie/prostituta Angèle.

Ma per certi versi tutto è già in quella prima immagine: lo sguardo che si frammenta e si spezzetta, le orecchie che non riescono ad ascoltare i rumori e, di conseguenza, la lingua non può fare altro che raccontare questa esperienza di guerra nella testa: “All’interno facevo più rumore io di una battaglia”.

Perché a dispetto del titolo, la guerra, in questo testo, si vede solo nei suoi effetti, nei suoi suoni (i suoni di cannone in lontananza che fanno da controcanto ai rumori nelle orecchie di Bardamu), nella viscosità delle immagini che continuamente ritmano la narrazione: il sangue, il vomito, la bile, la schiuma, le pustole, il mestruo. Non a caso una fra le parole che più spesso ricorrono in queste pagine è “carogna”, in cui convergono il doppio movimento del giudizio morale (che è rabbia, sfogo incontrollato) e dell’immagine del corpo in putrefazione.

È tutto troppo in Guerra, le immagini, le scene, le reazioni sono tutte iperboliche: è come se il narratore volesse rendere il continuo affollamento che c’è nella sua testa, ribaltando un grande luogo comune della topica memorialistica sulla guerra: la difficoltà del ricordo qui è tale perché c’è troppo affollamento; c’è troppa memoria, non troppo poca, non ci sono tanto zone di oscurità, ma un gran casino: “Non ci riesco. Era una bolgia, la memoria”; e il passato, quasi trasformato in un compagno d’armi ubriaco (“ubriaco di smemoratezza”), marpione e che sputa “su tutte le tue vecchie storie”, si fa un fetente che si “scioglie nella fantasticheria”.

D’altronde quella che Ferdinand sta raccontando è un’esperienza insanabile, la cui cruda realtà, anche quando sfocia nell’allucinazione, rimane tale, in una scrittura, proprio come la carogna, che è molto spesso metaforica e letterale al tempo stesso, come nei molteplici episodi erotici di questo libro, in cui il sesso e la morte sono continuamente connessi: “attacco a leccarla l’Angèle in mezzo al pagliericcio. Anche questo mi faceva ronzare, con tanto di pulsazioni, mi credevo che stavo per crepare”. La morte è metaforica, certo, è lo spettro che sempre accompagna Bardamu, ma è anche letterale: è la piccola morte dell’orgasmo.

Non a caso in Guerra, com’era già nel Viaggio, l’erotismo è il depositario di un disperato vitalismo, come si avverte fin  dalle primissime pagine di questo libro, in cui Ferdinand ci racconta, in uno stato di semi incoscienza e prossima morte, dell’erezione che gli causa solamente lo sguardo del “braccio di una tipa”. Ma si tratta di episodi in cui, contemporaneamente, si può notare quanto problematica sia la sessualità maschile durante la prima guerra mondiale: giovanissimi costretti a vivere in ambienti di soli uomini, Ferdinand e i suoi compagni non possono fare altro che dedicarsi o subire passivamente la masturbazione (mentre agli altri, agli stranieri, come da manuale topico di tanta letteratura e politica sessuale della prima guerra mondiale è riservato anche lo “sfizio” di “inchiappettarsi”: ma in ogni caso rimane una virilità sofferta, patita soprattutto sulle ferite del proprio corpo).

In alternativa, c’è la possibilità di congelarsi nella posizione del voyeur o, ma questa è una strada indicata solamente per il protagonista, farsi burattino di Angèle – e grazie al controllo esercitato dalla donna dare sfogo a un’animalità primitiva che emerge con tutta la sua forza in particolare nelle reazioni di rabbia non controllate e nelle violentissime descrizione dei genitori; occasione, quest’ultima, per sgretolare tutta la retorica dell’eroismo (da parte di Bardamu, decorato da una medaglia al valore) e della nazione che Céline incrina sotto il peso del suo grottesco impasto linguistico (che è la lingua della criminalità, delle prostitute, non quella dell’onore e della rispettabilità), e in quei momenti in cui la lucidità del narratore si manifesta in battute di cinica ironia: “è straordinario come fa aumentare la vendita dei mazzi di fiori la guerra”.

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