“Gusci”, romanzo d’esordio di Livia Franchini, uscito in Inghilterra e ora in Italia nella traduzione di Veronica Raimo, è la decostruzione di una storia d’amore e la ricostruzione di un’identità. Passando da un registro all’altro, da una voce all’altra, quello che ci viene offerto non è solo un percorso di ricerca, ma una sfida a sua volta lanciata a chi legge, grazie a una scrittura generosa. ilLibraio.it ha intervistato l’autrice, che vive a Londra dal 2007: “Ho dovuto raggiungere un livello di precisione tale nella mia seconda lingua, che tornare a scrivere in italiano è come un’altra disciplina sportiva”

Una relazione si porta dietro i biglietti del cinema, gli scontrini dei ristoranti, le felpe prestate e di cui si finisce per appropriarsi. A Ruth, quando Neil la lascia dopo dieci anni insieme svuotando i cassetti in una sola serata, rimane una lista della spesa. E davvero nient’altro.

Infermiera in una casa di riposo, rapporti sociali ridotti all’osso: chi è Ruth, sola per la prima volta dopo aver diviso un terzo della sua vita con un’altra persona? Gusci, romanzo d’esordio di Livia Franchini, uscito per Mondadori nella splendida traduzione di Veronica Raimo, è la decostruzione di una storia d’amore e la ricostruzione di un’identità. Capitolo dopo capitolo, punto della lista dopo punto, si aprono le finestre sul passato di Ruth. Ma se è la relazione con Neil ad averla definita negli ultimi anni, la riscoperta di Ruth e della sua identità di donna passa attraverso le voci delle persone che le vivono intorno, perché c’è un dentro ma anche e soprattutto un fuori, e nel contesto giusto, quando il fuori ti viene restituito da una comunità accogliente, allora sì che può iniziare la guarigione.

Passando da un registro all’altro, da una voce all’altra, quello che ci viene offerto non è solo un percorso di ricerca, ma una sfida a sua volta lanciata a chi legge, un invito a partecipare. Il piccolo mondo in cui si muove Ruth è fin troppo riconoscibile nei suoi meccanismi, eppure la sua narrazione porta in sé costanti elementi di novità, grazie anche a una scrittura pulita e generosa, sempre in grado di concedere, al personaggio e alla lettrice, i giusti spazi.

Livia Franchini, che vive da circa tredici anni in Inghilterra, è tra le fondatrici di FILL, il festival della letteratura italiana a Londra; è scrittrice, traduttrice, poetessa, e sta conseguendo un dottorato in scrittura creativa presso la Goldsmiths. ilLibraio.it l’ha (video)incontrata per una chiacchierata su Gusci, ma non solo.

Livia Franchini

Come nasce la struttura del romanzo?
“L’idea alla base era indagare quali sono i codici e le narrative che impattano sull’identità di una donna della mia generazione. Ho avuto la fortuna di muovere i miei primi passi all’interno di una comunità molto varia. Mi sono trasferita a Londra nel 2007 per studiare letteratura inglese e teatro alla Goldsmiths, dove è stato istituito il Goldsmiths Prize, che premia il reinventarsi della forma romanzo. La sperimentazione formale, poi, era centrale negli ambienti di poesia che frequentavo. Ho appreso la lingua mentre apprendevo il contesto culturale in cui esistevo. Quando cominciavo a capire i giochi di parole delle pubblicità in metropolitana mi sembrava di avere accesso a un altro livello di comprensione della società”.

E questo come ha influito sull’idea iniziale di essere senza identità?
“Quello che rivedo nella mia esperienza, e che ho potuto osservare nelle narrative di molte persone migranti, è che la linearità dell’identità esplode, sei vista e ti vedi dall’esterno. C’è un filtro artificiale con la lingua che stai imparando, sei conscia del tuo lavoro sulla lingua, nel parlare e nello scrivere. Questo ha contribuito a costruire anche l’approccio alla scrittura – il personaggio non è adiacente a me come persona, e di conseguenza il mio avvicinarmi a un personaggio così non poteva essere dalla nascita al suo climax. Ci sono stati capitoli difficili da scrivere, come i punti di vista degli adolescenti e soprattutto dei bambini, perché di bambini inglesi non ne avevo mai conosciuti; ad esempio c’era un capitolo raccontato da una Ruth di sette anni, tagliato poi nell’editing. La genesi del romanzo è durata cinque, sei anni: l’idea di essere senza identità c’era subito, molti elementi sono arrivati in seguito”.

Qual è il rapporto di Ruth con gli elementi della lista della spesa? Ogni personaggio la associa a qualcosa: per Neil lei si nutre di zucchero, con la madre ha un rito per consumare il pollo…
“Esiste questa dicotomia per cui c’è qualcosa di perverso nel definirsi tramite gli oggetti della quotidianità, ma quando ti senti naufragare a livello identitario andare al supermercato e comprare le stesse cose è un modo di attraccare a se stessi, tramite il consumo. Il rapporto di Ruth con il cibo ha più a che fare con la possibilità di controllare quello che si può controllare, che con il voler dipingere in maniera specifica rapporti personali con il cibo, che ognuno ha in un suo modo; nel suo caso si tratta di decidere cosa può rimanere fuori e cosa dentro. Si concede poco, perché concedere qualcosa vuol dire lasciarlo al caos: ma quel poco è pensato, ha una sua ritualità”.

Mentre Ruth sceglie cosa rimane, abbiamo un coro finale di voci, le donne della sua vita più una, che ci restituiscono altri aspetti di lei: com’è arrivata questa scelta?
“Il punto di partenza politico, da studiosa di femminismo e di autrici femministe, è la speranza dell’esistenza di una comunità di donne che ti protegge, in cui ti inserisci e in cui il conflitto si risolve come comunità. Il personaggio di Ruth a un certo punto mi sembrava più resistente, non aveva formulato alcuni pensieri sulla propria identità di donna e probabilmente non si sentiva a suo agio a formulare questi pensieri, o non si sarebbe arresa a una relazione decennale con chi di fatto annulla questa identità. Non avrebbe avuto senso lavorare a una risoluzione a livello di trama, sarebbe stata una forzatura farla arrivare alla consapevolezza di essere parte di una comunità. Ho cercato una comunione a carattere femminista con chi legge, lasciando alla lettrice degli spazi interpretativi che è invitata a riempire; volevo un romanzo che si pensasse insieme. Ho preferito un momento collettivo dove non c’è una singola narrazione, che fino a quel momento aveva modellato in modo negativo l’identità di Ruth, ma molte narrazioni che esistono in contemporanea. È una storia di amore e guarigione, ma la guarigione è in corso: è un processo che continua, non parte da A e arriva a B, ma è un cammino di cura”.

Dalle pagine infatti si percepisce il continuo divenire di questo percorso.
“É anche il mio approccio alla pratica femminista, non si impara in un colpo, ma si apprende, e ci si cura continuamente. E a volte nella propria cura ci si scorda di curare altre persone, e finiscono sotto le ruote le persone con meno privilegio. Per questo il libro è circolare: non sappiamo niente della vita di chi narra l’ultimo capitolo. La storia di Ruth finisce con un gesto affettuoso di una persona, che sta facendo il proprio mestiere e di cui vediamo un piccolo sprazzo, ed è un’apertura plurale. La scoperta della propria identità, ma anche la solidarietà con chi la condivide sono idee da perseguire”.

Nata e cresciuta in Italia, poi l’impatto con la lingua inglese attraverso il trasferimento, gli studi, il master… Com’è il rapporto tra la scrittura e le due lingue?
“La mia esperienza di master è stata ambivalente, da un lato è stato prezioso avere il privilegio di poterlo frequentare, dall’altro non mi sentivo parte funzionale dell’istituzione. Per un lungo periodo ho assorbito tantissimo, ma i miei strumenti di inglese erano limitati, e la scrittura era molto diversa. Ero una bambina molto articolata nella lingua italiana, avevo un blog e, unito al fatto che ero una teenager, parliamo proprio di uno stile che era praticamente tutta forma…e intorno a me le cose si muovevano velocemente, dovevo passare dalla forma diario ad altro, e in una seconda lingua. Per due anni non sono riuscita a scrivere, è stata una bella prova di umiltà”.

E da lì?
“Mi sono dovuta davvero chiedere cosa volevo raccontare e come. Ora sto bene a scrivere in inglese, ma a un costo. Ho dovuto raggiungere un livello di precisione tale nella mia seconda lingua, che tornare a scrivere in italiano è come un’altra disciplina sportiva. Anche per questo è stato tradotto da un’altra autrice, Veronica Raimo, che già ammiravo, e che ha fatto un lavoro migliore di quello che avrei potuto fare io. Spesso con Claudia Durastanti, da traduttrici, ragioniamo sul tradurre in favore del lettore, e sul tradurre in favore dell’autore: se ti traduci da sola, non puoi indulgere in te stessa. L’italiano per me è diventata la scrittura degli affetti, per certi versi”.

Come è nata la collaborazione con Raimo, collaborazione che tra l’altro sembra inserirsi perfettamente nell’idea di comunità ricercata nel romanzo?
“Tutto questo è nato proprio in un contesto di comunità. Io, Claudia e Veronica abbiamo lavorato insieme a Le Visionarie (Nero Editions). Ci siamo conosciute in una situazione che unificava un impegno letterario e, pur essendo tutte e tre diverse come autrici, sapevamo di avere dei punti fermi in comune e un taglio femminista diversificato”.

E si arriva a Gusci.
“Avevo letto Miden (romanzo di Veronica Raimo pubblicato da Mondadori, ndr) all’uscita ed ero rimasta a bocca aperta per la pulizia dell’italiano, ricordava l’inglese ma senza essere un’imitazione, ed era una scrittura priva di narcisismo. Mi è sembrato un lavoro che si avvicinava a quello che ricercavo, cioè corrompere la lingua inglese con un approccio formale differente, magari anche europeo, e poi corrompere la lingua anche a livello sintattico, con delle inflessioni italiane. Le ho scritto per dirle quanto ero rimasta colpita, ed è saltato fuori che voleva tradurre Gusci e mi è sembrata la cosa migliore possibile. Veronica è stata rispettosissima nel suo primo approccio al testo, e io le ripetevo: ‘Ho questa fortuna che lo scrivi meglio te questo libro’. Quando traduco non vorrei mai sovrappormi all’autore, ma l’ho incoraggiata a sovrapporsi perché sembrava la continuazione di un esperimento, questa concezione di identità che passa da una donna all’altra”.

Ripensando allo spazio potenzialmente creativo che si forma tra un testo e la sua traduzione, si è creata questa distanza nel caso di Gusci?
“Qualcosina è cambiato. Ne parlavo con Linda Fava, alla Ruth italiana si vuole un po’ più bene che alla Ruth inglese. Venendo dalla poesia mi affidavo al suono in un modo che non so se è ritrovabile nell’italiano: l’orecchio di Veronica è una parte preziosissima della sua scrittura, ed è stata in grado di arricchire e riscrivere il libro nel modo più coerente. Non mi è affatto dispiaciuto che Ruth fosse un po’ più pungente. A livello tonale, Ruth inglese subisce di più. Non è lo stesso libro, ma non credo proprio sia possibile scrivere lo stesso libro, a meno che l’autore non sia particolarmente intransigente; la mia priorità era verso il lettore, quindi sono felice ci sia qualcosa che sia cambiato, sia che sia frutto di un lavoro collettivo”.

Parlando di una comunità ideale di autrici, quali sono state le voci di ispirazione in questo percorso, o in generale?
“I miei pilastri: Lydia Davis, Virginia Woolf e per alcune cose Anna Kavan, su cui sto lavorando per la mia tesi su femminismo e forma. Un’altra scrittrice rilevante per me è A.M. Homes, soprattutto per le storie brevi. Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan è stato un libro importante nel mio percorso. Ci sono state persone vicine a me per quanto riguarda la poesia, ma si tratta di una comunità di scrittori miei contemporanei, farei fatica a identificarne uno o un altro”.

Ultimamente si discute sul concetto di canone – su come possa essere soggettivo ed escludere determinate voci. Da studiosa: si può uscire da questi canoni, ha senso riformularli?
“Penso sia un lavoro utile sovvertire i canoni esistenti; riformularli è problematico. Come diceva Audre Lorde: gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone. Le autrici che ho citato prima, ad esempio, sono tutte bianche: sono le autrici su cui io sto scrivendo, da un punto di vista di scrittrice io stessa, non mi sentirei a mio agio nell’appropriarmi di un’esperienza non mia da una prospettiva creativa che non prende in considerazione le nostre differenze. Mi sembra importante accettare che spesso come individui non siamo in grado decidere chi siano gli autori fondamentali in senso universale. Girl, Woman, Other di Bernardine Evaristo è un libro bellissimo che offre l’accesso a un’identità narrativa differente dalla mia, e lo raccomando, ma non sta a me decidere, o spiegare perché è importante. Diciamo che metto in discussione la necessità di riformulare un canone a meno che non nasca tra chi cerca di creare spazi per narrative che spazio non hanno. Si tratta di capire dove si vogliono incanalare le energie. Perché vogliamo riformulare nuovi canoni? Da che punto di vista? O è più importante cercare di promuovere letteratura che non sia quella che è stata promossa fino ad adesso? Questo può voler dire a volte mettersi da parte, lasciare spazio, o se quello spazio non esiste contribuire a crearlo. E non bisogna dimenticare che il dibattito su rappresentazione e identità è diverso, a seconda del contesto in cui nasce: nel processo di fare nostro, come italiani, un discorso che avviene all’estero in lingua inglese, rischiamo di non accorgerci che quel discorso per sua natura beneficia di quanto è forte la lingua inglese a livello di circolazione. Ogni contesto ha una sua complessità”.

Riguardo all’esperienza come organizzatrice di festival: il mondo degli eventi culturali come potrebbe adattarsi al post-pandemia?
“Al momento non sono in grado di parlare specificatamente di FILL in sé; spero ci sarà una modalità per fare qualcosa. Dal mio punto di vista, ho visto molto fermento online, che ho trovato interessante. Ora gli eventi online ricalcano quello che sarebbero stati se fossero avvenuti fisicamente. Quello che mi sarebbe piaciuto è una forma per cui si invitano a titolo aperto il poeta di Aulla che non ha mai letto live insieme al poeta di Milano con un seguito. Internet è stato uno strumento potente per mantenere vivo un contesto culturale, e si potrebbe cominciare a ragionare su come possa anche in futuro cancellare alcune distanze. Mi interessa tutto ciò che può ripensare la forma della scrittura a livello comunitario. Per FILL avevo fatto produzione di eventi live con poeti bilingui, e quando abbiamo cominciato era tutto online, un grande documento poetico su google docs”.

È in lavorazione un secondo romanzo?
“Il secondo libro sarà molto diverso, non parte dalla forma, almeno non nella stessa maniera. Continuerò a creare spazi interpretativi, ma saranno meno evidenti. Ho bisogno di godermi questo libro, concedermi alcune cose. Con il primo romanzo mi sono data come scrittrice in pasto a quest’altra cultura, cercando di cristallizzare un’esperienza di piccolezza e passività, ora vorrei riappropriarmi di alcune forme del romanzo, e riappropriarmi di quello a cui posso accedere io da italiana che scrive in seconda lingua. Però, ecco, mi vorrei divertire”.

Fotografia header: (C) Robin Silas Christian

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