“Ho qualche domanda da farti” di Rebecca Makkai, autrice già finalista al Pulitzer e al National Book Award, intreccia una trama gialla con un’ambientazione da campus novel, e tocca molte questioni dibattute del nostro tempo. Un romanzo che suscita riflessioni sull’etica delle narrazioni true crime, sui limiti della cancel culture, sul potere mediatico di quello che scriviamo sui social, ma anche sul peso imprevedibile che può avere una comunità nei confronti della giustizia, sul pregiudizio affrettato che suscitano i fatti di cronaca, sull’essere uomini o donne dopo il #MeToo e…

Nei boschi sperduti del New Hampshire c’è una boarding school, la Granby, dove nel 1995 una ragazza ha perso la vita. Il suo corpo è stato ritrovato nella piscina, ma il caso è ancora da chiarire.

Ho qualche domanda da farti, pubblicato da Bollati Boringhieri nella traduzione di Marco Drago, è il nuovo romanzo di Rebecca Makkai, che in Italia abbiamo già conosciuto qualche anno fa con I grandi sognatori, (Einaudi, traduzione di Cristiana Mennella), già finalista al premio Pulitzer e al National Book Award, un romanzo corale che raccontava di un gruppo di amici funestati dalla prima vera epidemia di Aids a Chicago negli anni ’80.

i grandi sognatori rebecca makkai einaudi

Bodie Kane, la protagonista di Ho qualche domanda da farti, è una docente di cinema e podcast e si ritrova a dover tenere delle lezioni nella scuola elitaria che ha frequentato per quattro anni, gli anni dell’adolescenza, oscuri e inquieti al solo ricordo dell’evento che ha scosso tutta la comunità: l’omicidio di Thalia Keith, la sua compagna di stanza. L’episodio riemerge quando una studentessa le chiede di progettare un podcast sull’argomento; in fondo si sa, oggi i podcast true crime sono tra i più ascoltati.

Ho qualche domanda da farti intreccia una trama gialla con un’ambientazione da campus novel: la protagonista ripercorre tra nostalgia e amarezza i quattro anni vissuti da outsider, riesamina le relazioni instaurate con i compagni e con la stessa vittima, come se ogni dettaglio potesse servire alla risoluzione del mistero. Perché c’è un colpevole che non è il vero colpevole, il preparatore atletico Omar, arrestato in fretta per chiudere il caso, forse perché uno dei pochi neri in una scuola di bianchi, ma ci sono tante altre possibili vittime del pregiudizio, perché nel 1995 una schiera di adolescenti, ancora inesperti della complessità del mondo, si è lasciata trasportare dal peso sociale del pettegolezzo, rendendo fattuali quelle che potevano essere in partenza solo ipotesi. Quando si è adolescenti si è certi che il mondo giri intorno a sé, e non c’è niente di più appagante del condividere segreti, alimentare il gossip, per sembrare persone più interessanti, per avere qualcosa da dire, non importa se vero o falso.

Bodie è una podcaster professionista, nel suo podcast si occupa nello specifico delle dinamiche discriminatorie nei confronti delle donne attrici all’interno della grande macchina dello studio system hollywoodiano. Tra le molestie ricevute dai compagni e l’atteggiamento da ragazza popolare di Thalia, la rievocazione del passato si rivela sempre più sorprendente per la percezione che è cambiata negli anni, per la sensibilità che la società oggi nutre verso certi temi anche solo rispetto a qualche tempo fa.

La protagonista riconosce quanto le nuove generazioni siano più caute quando si affrontano argomenti come la violenza sulle donne e non solo, per questo da un lato c’è uno youtuber true crime e la sua schiera di follower a muovere la facile indignazione online con la caccia al colpevole. Ma poi c’è anche Britt, la studentessa rappresentante della GenZ  alle prese con il podcast sul caso di Thalia a volerne sapere di più, una ragazza abbastanza coscienziosa da porsi il problema di evitare di comportarsi come la solita ragazza bianca che fa intrattenimento parlando di omicidi online, consapevole del fatto che il true crime è diventato puro intrattenimento.

Muovendosi tra tutte le fonti a disposizione, vecchi amici, tweet, documentari, interviste dirette e indirette e persino discussioni complottistiche su Reddit, Bodie ha molte domande da fare al professor Bloch da quando si è capito dell’innocenza di Omar. I sospetti sono caduti su di lui, perché già si sapeva avesse un rapporto confidenziale con le studentesse, tanto che non era un mistero che Thalia si fosse innamorata di lui, pur avendo un fidanzato, Robbie Serenho. È una storia credibile, che funziona, il professore viscido che molesta la studentessa. Ma evidentemente non è sufficiente questo a cancellare una persona.

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Parallelamente ai fatti di cronaca, la protagonista vive anche la shitstorm scatenata su Twitter che ha come oggetto le presunte molestie del suo ex marito nei confronti di una donna più giovane di lui. Un’altra vittima dell’indignazione online. I commenti sono tra i più disparati, c’è chi si scaglia contro gli “uomini di merda che governano il pianeta”, chi puntualizza sull’età del consenso, ma anche chi si chiede se non fosse un abuso, ma semplicemente una relazione tossica. È necessario cancellare le persone perché non sono brave nelle relazioni?

Con la lente del presente in mano lotta contro la superficialità delle indagini, contro le vecchie dicerie alimentate quando erano studenti alla Granby, che potrebbero aver distorto la realtà, perché, come scriveva Philip Roth in Pastorale Americana, pensare di conoscere la vita degli altri, entrare nelle loro vite, nelle loro decisioni è come essere all’interno di una commedia degli equivoci, vivere significa capire male la gente, e dopo un attento riesame ancora male.

Ho qualche domanda da farti in conclusione suscita nel lettore innumerevoli riflessioni sulla contemporaneità, sull’etica delle narrazioni true crime, sui limiti della cancel culture, sul potere mediatico di quello che scriviamo sui social, ma anche sul peso imprevedibile che può avere una comunità nei confronti della giustizia, sul pregiudizio affrettato che suscitano i fatti di cronaca, sull’essere uomini o donne dopo il #MeToo, sulla complessità della natura umana, perché è un istinto umano quello di mettersi al centro di un disastro, di una storia, non per attirare l’attenzione, ma perché ci si sente veri.

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