Di case è piena la letteratura. E nel nuovo romanzo di Andrea Bajani (“Il libro delle case”), queste si pongono come dispositivo formale che struttura tutto il testo, e insieme il prisma attraverso cui si ricostruisce la storia e l’identità sfuggente del personaggio che viene chiamato Io – L’approfondimento

Di case è piena la letteratura. E in particolare dalla nascita del romanzo moderno gli interni domestici sempre più spesso hanno creato le ambientazioni per le storie che in quei luoghi prendevano forma. Talvolta può capitare che la casa non sia un semplice spazio che fa da sfondo alla narrazione, ma sia l’orizzonte stesso che struttura il racconto, attraverso valenze simboliche o metanarrative, trasformandosi in un personaggio vero e proprio, configurando le relazioni fra le soggettività e il mondo, facendosi, anzi, talvolta il luogo in cui avviene la soggettivazione e quindi si delinea o si modifica l’identità stessa (con le sue ossessioni, paure, desideri).

Può capitare, insomma, che la casa sia un luogo, che sia un tema, che sia una forma: si pensi alla casa Usher di Poe, o a quella dei sette abbaini di Hawthorne – ma non è poi una casa anche il labirinto del Minotauro? (così, se non altro, si configura in un racconto di Borges…).

O ancora alle case Landolfi, alle case Gadda, alle case Mari (anche e soprattutto quelle fotografate da Francesco Persico in Asterusher), alla casa da cui la signora Ramsey e suo figlio guardano il faro o a quella che viene completamente svuotata dal protagonista del Grande animale di Gabriele di Fronzo.

Wright Morris sulla casa fonda interamente la poetica di due libri interessanti (e purtroppo mai tradotti in italiano), scritti mescolando parole e immagini e che non a caso si intitolano The Inhabitants e The Home Place.

Andrea Bajani Il libro delle case

È questa l’aria di famiglia che respira l’ultimo romanzo di Andrea Bajani, Il libro delle case (Feltrinelli), in cui la casa, appunto, è un dispositivo formale che struttura tutto il testo (dall’articolazione dei capitoli alle scelte narrative, dal punto di vista all’intramazione, alla gestione del tempo e del ritmo) e insieme il prisma attraverso cui si ricostruisce la storia e l’identità sfuggente del personaggio che viene chiamato Io.

La vita di Io viene raccontata attraverso brevi capitoli dedicati a una casa: come se fossero ognuno un ricordo e per questo si seguono l’un l’altro senza soluzione di continuità, quasi casualmente, come riappaiono alla memoria, e proprio come ogni ricordo ognuno è conchiuso in sé stesso. Così la storia di Io è puntellata da queste immagini che frammentariamente vanno a comporre la struttura del libro: e verrebbe da dire che proprio di immagini si tratta (e basti pensare all’insistita ripetizione dei verbi della vista) se il narratore indugia così tanto nella descrizione, che è forse il modo principale del libro, arrivando anche a comporre quelle che sembrano delle vere e proprie nature morte – e che stanno lì a segnalare il tempo che passa, l’artificialità della ricostruzione della memoria, la finitudine dei mondi racchiusi in quelle case. Delle immagini, tuttavia, con cui questo io-protagonista entra in relazione attraverso una via principalmente sensoriale: non si tratta soltanto di percezioni visive, ma anche tattili e olfattive; ogni casa, ogni ricordo ha i suoi odori, le sue superfici e i suoi oggetti da toccare.

Non a caso, l’impressione generale è quella di un’attenzione soprattutto alla superficie delle cose e dei fenomeni: il discorso paratattico, l’attenzione alla descrizione, l’eliminazione di ogni nome proprio in favore di quello comune che designa i personaggi in base alla relazione che intrattengono con l’io (Madre, Nonna, Padre, Moglie, Bambina, Parenti, il Poeta, il Prigioniero), segnalano quasi l’impossibilità di andare davvero a fondo nelle maglie della storia (e della Storia): anche gli eventi collettivi rimangono in certa misura opachi; gli ultimi cinquant’anni di storia italiana sono più allusi che raccontati attraverso due eventi dalla grande portata simbolica: la morte (non a caso) di Pier Paolo Pasolini e di Aldo Moro. Due morti (forse di nuovo non a caso), senza nome (anche loro si fanno personaggi: il Poeta e il Prigioniero) e che segnano in qualche modo la fine di un’epoca. Ma restano in superficie, come se fossero anche loro immagini della memoria che però, volutamente, non si riesce a connettere in un disegno generale, a scandagliare nel profondo, ma solo a descrivere (forse perché questo è il segno dei tempi che vengono dopo quelle due emblematiche morti).

Ma non è tanto la morte a fare da leitmotiv in questo libro: il tono generale del discorso è impostato, piuttosto, sul motivo della distanza. Distanza, in primo luogo, del narratore dalla vicenda che racconta: l’io non è, qui, la voce che racconta la propria storia, ma una terza persona che si fa personaggio (il pronome si fa nome proprio: “il bambino che per convenzione chiameremo Io”) e gli eventi stessi sono come allontanati (quasi come in un meccanismo difensivo) attraverso il costante uso delle forme verbali impersonali o della litote (come nel bel capitolo conclusivo).

Sintomo, sembrerebbe, anche di un tentativo di trovare nuove modalità di racconto che escano dai modi di molte scritture di non-fiction contemporanea (e che in modi certamente molto diversi è rintracciabile anche nell’ultimo lavoro di Giorgio Falco e Sabrina Ragucci, Flashover).

Ma si tratta anche dell’adozione di una specifica forma funzionale a riprodurre la difficoltà relazionale che caratterizza i personaggi del Libro delle case e che imposta i rapporti interpersonali sul filtro di una distanza che è soprattutto emotiva e talvolta si spazializza proprio attraverso le numerose case (che a questo punto diventano anche un meccanismo retorico) per segnalare una difficoltà nei modi di socialità.

Il paradosso in cui infatti si risolve il Libro delle case è quello di essere, alla fine, un romanzo sullo sradicamento: il personaggio Io non fa che muoversi e spostarsi di casa in casa, ne ha molte e quindi non ne ha nessuna. E se ogni cosa diventa una casa (anche un luogo non fisico, ma mentale o simbolico o totalmente astratto) vuol dire, in fin dei conti, che tutto ne ha bisogno e non si può fare altro, continuamente, disperatamente, di cercarne una.

Fotografia header: Andrea Bajani, foto di Lorenzo Maccotta

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