Il “reportage emotivo” (pieno di citazioni, da “Le mille luci di New York” a “Hansel e Gretel”, passando per Poe) della scrittrice Simonetta Tassinari

di Simonetta Tassinari*

 

Quando si entra in casa d’altri, il nostro stesso linguaggio del corpo (si abbassa la testa, le braccia stanno compostamente lungo i fianchi, un sorriso, più o meno ossequioso, ci si disegna sulle labbra) dimostra la consapevolezza di stare abbandonando un terreno neutrale e comune per addentrarci in un’area che non è la nostra e della quale dobbiamo, implicitamente, accettare le regole. Insomma ci situiamo immediatamente in una posizione subalterna perché consideriamo le mura altrui come un ampliamento della persona che vi abita, le modella a suo gusto e, per l’appunto, vi fa entrare chi vuole (“Qui da noi certi argomenti non si toccano..qui da noi si cena alle otto..qui da noi si lasciano gli ombrelli sul pianerottolo” sottintendono un se non ti piace, vai pure). Il sentirsi padroni di uno spazio in cui si penetra solo dopo aver domandato il permesso è un altro aspetto gratificante del legame con la nostra abitazione. Che cosa sono, gli spioncini che ci fanno guardare i visitatori prima di concedere loro il visto, oppure il videocitofono, se non le nostre armi segrete di difesa?

La costruzione di grandi dimore, da parte di vecchi e nuovi ricchi, è testimonianza di potere, segnale di gerarchia sociale; e anche nel normale ci vediamo a casa mia? entra di striscio la fiducia nella propria fetta di mondo, sulla quale si conta per essere più sicuri e disinvolti. Essendo la casa anche lo specchio di abitudini, predilezioni e tendenze, la nostra casa ci somiglia; e finisce per somigliarci anche quella che consideriamo transitoria e gradiremmo cambiare (le tendine di una certa tinta, o perfino un vassoietto di plastica che ci portiamo dietro in tutti i traslochi, sono pur sempre il tentativo, benché passeggero, di instaurare un minimo di simbiosi anche con l’appartamento che ci pare di detestare).

Nel medesimo tempo, anche noi finiamo per assomigliare alla nostra casa, senza andare a scomodare il genius loci dei Romani. Che Gattopardo sarebbe, un Fabrizio Salina privo del suo palazzo a Donnafugata con le sette finestre sulla piazza e i suoi duecento metri di estensione? E il protagonista de Le mille luci di New York, senza il suo flat nella Dodicesima ovest, trascorrerebbe il tempo nei night club assieme a una ragazza rapata a zero, aspettando quell’impercettibile chiavetta con cui si passa dalle due alle sei del mattino?

Jay Gatsby sarebbe un qualunque gangster di bell’aspetto se gli si togliesse la sua villa brulicante di esseri umani con la piuma sul nastrino dei capelli o in pantaloni gessati, ebbri e sperduti al suono di un’orchestrina charleston; Luigi XIV un semplice sovrano boccoluto e sovrappeso, lontano da Versailles; e il Dickens di Black house sarebbe meno opprimente, il Poe di Casa Huscher meno allucinato, perfino la Nora di Ibsen non avrebbe forse preso coscienza di essere arcistufa della sua casa di bambola se fosse stata circondata da un minor numero di trine e se il marito, all’interno delle loro levigate pareti, non l’avesse chiamata tutte quelle volte allodola (E basta, Harold, mi verrebbe da dirgli ogni volta che assisto a una rappresentazione del dramma).

Attraverso diminutivi o accrescitivi che ne denotano l’affettività (la casina, la casetta, la casaccia), anche nella nostra attuale frenetica e frammentaria esistenza la casa è una delle poche certezze, uno dei pochi antidoti allo smarrimento. Allorché ci se ne allontana il desiderio più forte è ritornarvi; e il tema del “nostos”, il ritorno, è onnipresente nella letteratura classica, dall’Odissea in poi. Dunque l’ospitalità è un valore, uno spalancare il proprio territorio non sempre e non solo per stupire, ammaliare, soggiogare o sentirsi in trono, bensì per condividere, mostrarsi, rischiare, investire. In casa si ama, si mangia, si tessono intrighi, si scrive, si litiga, si discute, si ride, ci si nasconde; ma quella che solitamente è una culla può diventare anche un antro angoscioso come il misero appartamento di Käte Bogner, la moglie di Fred dell’ Heinrich Böll di E non disse nemmeno una parola, intriso di una mortifera umidità che neppure un continuo lavoro di straccio e spazzola mitiga, umidità che è forse proiezione del travaglio mentale dello sperduto individuo del Secondo dopoguerra tedesco.

Ed ecco ancora una casa fatata, stregata o maledetta, con il che le attribuiamo una soggettività positiva o negativa, la facciamo interagire, le concediamo la facoltà di intervenire direttamente nelle nostre vite.

La casa è un insieme che trascende le sue parti, nel quale il tempo può essere fermato e cristallizzato in oggetti, fotografie, cimeli.

La luce di una casa nel bosco significa la salvezza. Il simbolo di delizie, in un’epoca di fame latente, è la casa di marzapane di Hansel e Gretel. Perfino Freud, per definire la sua rivoluzione psicoanalitica, non trova di meglio che affermare “L’Io non è più padrone a casa propria”.

Bilocale, monolocale, villa in campagna come quella al centro della narrazione de “La casa di tutte le guerre”, ogni casa è un’isola segreta i cui unici segni rivelatori sono la targhetta e il campanello (che si può fingere di non sentire).

E che dire delle case in miniatura, ossessione antica (pare ce ne fossero perfino tra gli Etruschi) indizio delle continua ricerca di se stessi tra anima e corpo, della cui unità la casa è l’emblema?

Non è forse un cercare di cogliere il segreto che sta “dietro” una casa il replicarla in minute proporzioni, malgrado l’effetto, quasi sempre, di una fredda, se non paurosa falsità? Perché ben sappiamo che le case in miniatura rappresentano la realtà, ma non sono la realtà. Servono per rimuovere le paure degli angoli bui che tutti abbiamo provato da piccoli, condensare schegge di ricordi sgraditi facendoli trapassare nel legno delle miniature tedesche e austriache, le più perfette, o perfino nella plastica delle ultramoderne case di Barbie. Vi ritroviamo il linguaggio quotidiano nella precisione con la quale sono modellati i più minuti particolari, il vasellame, le coperte, le sedie, gli armadi, il tavolo apparecchiato, ma in esse non c’è la naturalezza di una macchia di vino sulla tovaglia, un paio di jeans che penzolano dal divano, una ciabatta scompaiata che si è ficcata sotto il letto.

Pardon. Ecco un’intrusione, a proposito di psicoanalisi, di immagini che a me, estremamente disordinata, risultano molto familiari, dalla macchia sulla tovaglia in poi. I miei Lari e Penati individuali dovevano essere piuttosto confusionari e aver sofferto, mentre crescevo in stanze perfettamente tenute da madre e nonna, in attesa di sgusciar via con me e di affrancarsi dall’ogni cosa al suo posto, nel quale sono stata educata (ahimè, con ben scarsi risultati).

Ma non sarà, poi, concedetemi il dubbio, proprio quell’assetto assolutamente esemplare a rivelare la menzogna delle case in miniatura, a darci qualche brivido, come nel caso di talune maschere teatrali antiche, perché ci appare priva di vita?

Perché la casa deve essere viva, ma sono sempre le persone che la rendono tale, che denotano un luogo, che lo creano, che lo fanno diventare una categoria dello spirito.

Sono le persone che rendono la casa ambiente, famiglia, focolare, tradizione, legge non scritta.

Nella rievocazione, ogni nostra abitazione è indissolubilmente legata ai visi, alle voci, all’andatura, ai gesti e ai modi degli esseri umani che assieme a noi l’hanno popolata.

Quello che allo sguardo lucido e disincantato dell’adulto non è che un modesto fabbricato senza pretese, al ricordo della fantasia infantile può sopravvivere come un alveo aggraziato e perfino spazioso, se è lì che si sono ricevuti cure, affetto e consolazioni. La panchina spoglia del ridotto giardinetto ha ospitato giochi e avventure tra fratelli, sorelle e cugini; l’albero cavo un tesoro come quello di Jem e Scott in Il buio oltre la siepe; la cassapanca d’angolo di legno consunto, senza più colore, dove stavano stipate tovaglie e coperte, era il recipiente magico dal quale ci si aspettava di veder fluire un oceano dove galeoni e brigantini s’inseguivano all’arrembaggio, come nelle opere di Lewis, accompagnati dalla presenza benefica degli adulti. Perché la memoria è un faro, e non un recipiente vuoto, e il riandare anche solo con la mente alla casa del cuore- quella, tutto sommato, nella quale siamo stati, poco o molto, più felici- è come rifugiarsi ancora nelle braccia di una madre.

E casa-madre è anche una delle tante varianti del termine.

Buon ritorno chez vous dunque, buon ritorno a casa.

 

* L’autrice è nata a Cattolica ed è cresciuta tra la costa romagnola e Rocca San Casciano, sull’Appennino. Vive da molti anni a Campobasso, in Molise, dove insegna Storia e Filosofia in un liceo scientifico. Prima di scrivere “La casa di tutte le guerre” (Corbaccio) ha attraversato diversi generi, dalla sceneggiatura radiofonica alla saggistica storico-filosofica, dal romanzo storico al romanzo brillante, pubblicando, tra gli altri, per Giunti ed Einaudi scuola.
Ha vinto il premio «Il Pungitopo» e il «Premio di narrativa italiana inedita», e ha collaborato con giornali e riviste. Vive in campagna con la famiglia, tre gatti e un cane.

Corbaccio

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