“Il pieno di felicità” è il memoir di Cecilia Ghidotti, una donna di circa trent’anni che studia e lavora come ricercatrice in Inghilterra. Mentre vede amici che si sposano, amici che diventano genitori, amici che credono che la vita possa essere vissuta oltre un orizzonte fatto di pochi mesi, Cecilia non può fare a meno di interpretare il futuro in modo ansiogeno, continuamente ancorata al passato, in un estenuante andirivieni emotivo. La domanda che ricorre come un fantasma in tutto il romanzo è: quand’è che le cose sono precipitate? Deve esserci stato un momento specifico; il racconto dei fatti cerca implicitamente di riviverlo, per forse provare a comprenderlo e ribaltarlo… – L’approfondimento

“Ho solo diciotto anni. Come faccio a sapere cosa vorrò nella vita? 

Come faccio a sapere cosa mi servirà?”

(Peter Cameron, Un giorno tutto questo dolore ti sarà utile,  Adelphi, 2007, trad. Giuseppina Oneto)

Chi pronuncia queste parole al termine del romanzo è James, il protagonista, che si sta per affacciare alla vita adulta e si trova a disfarsi del lascito materiale della nonna morta. Si disinteressa di ciò che arriverà per quasi tutta la vita, ma poi, dopo il lutto, con un piede non troppo convinto al college, prende la prima decisione significativa per il suo futuro. 

Nel memoir di Cecilia Ghidotti (foto di Vera Riveda, ndr), Il pieno di felicità (minimum fax, 2019), la parola futuro compare puntuale e problematica. James è un antidoto efficace alla malattia della procrastinazione: qualsiasi studente dalla sveglia ritardata, qualunque ventenne incurante del dopo può volgergli lo sguardo e trovare conforto.

Il pieno di felicità Cecilia Ghidotti

James, però, è un personaggio di finzione, frutto di una narrativa che per quanto realistica possa essere sconta la realtà. Cecilia Ghidotti di anni non ne ha diciotto ma circa trenta, non vive e lavora a Manhattan ma a Coventry, Inghilterra. È una studentessa e ricercatrice, non un’assistente gallerista come James, e si è trasferita da Bologna per seguire un primo post-doc e poi iniziarne un secondo.

Nel romanzo di Cameron la parola futuro non è quasi mai esplicitata ma segue il racconto come un’ombra: James arriva a interpretare al meglio il suo futuro solo quando lascia completamente andare il suo passato, disfacendosene, e non si ha mai la sensazione che non possa arrivare a una soluzione. Cecilia interpreta invece il futuro in modo ansiogeno, continuamente ancorata al passato, in un estenuante andirivieni emotivo; la possibilità di fallimento si insinua a ogni cambio pagina. 

La domanda che ricorre come un fantasma ne Il pieno di felicità è: quand’è che le cose sono precipitate? Deve esserci stato un momento specifico; il racconto dei fatti cerca implicitamente di riviverlo, per forse provare a comprenderlo e ribaltarlo. 

Capire la logica che sottintende decisioni prese senza motivo apparente è per Cecilia faticoso. La sensazione di uno scollamento fra le aspettative dei vent’anni e quanto accaduto dopo è viva in ogni capitolo e ci accompagna per tutto il libro. Un continuo “Che ci faccio qui? Cosa sto facendo?” si fa eco tra le vicende raccontate e ogni episodio, dal più piccolo al più importante, guadagna rapidamente un tratto problematico.

Il tempo non è mai un alleato nella vita di Cecilia, che si descrive in ritardo a diversi livelli, accetta lavori brevi o brevissimi per l’esigenza di tenersi occupata, è accerchiata da persone che, all’opposto, pare abbiano guadagnato tempo extra, come vite bonus a un videogioco impossibile per lei da governare. Perfino i suoi spostamenti casa-università sono eterni, mentre la distanza emotiva che la separa dall’Italia è strettissima.

Se il tempo amministra il futuro, ecco che la dimensione privata di quest’ultimo è fonte costante di dubbi: Ghidotti cerca di districarsi provando a trovare un focus personale, confrontandosi con il gruppo di vecchi amici che si sfalda, con decisioni di coppia prese a ritmo di “Possiamo prendercela un po’ come viene, come abbiamo sempre fatto. Finora ha funzionato, no?”, con il compagno che appare molto più centrato di lei, con il passato e una città che non vuole allontanare. 

La seconda dimensione del futuro, quella collettiva, è poco consolatoria: ci sono amici che si sposano, amici che diventano genitori, amici, dunque, che credono che la vita possa essere vissuta oltre un orizzonte fatto di pochi mesi. Anche la questione Brexit è inquadrata nell’ottica della scarsa fiducia nel domani. Il Remain diventa quasi un luogo dell’anima, per quelli che possono permettersi un’ipoteca sul futuro, mentre il Leave diventa un’espressione reale di quello che il futuro è diventato: qualcosa da lasciar andare, un’eredità pretenziosa che non ci possiamo permettere.

La domanda che Cecilia si fa, e noi con lei, è sempre con più forza: quand’è che le cose sono precipitate? Ciò che invece continuano a chiederle è: “Sì, e poi?” oppure “Come pensi di vivere in Inghilterra, se fai così fatica? Ci hai riflettuto?”. Ne Il pieno di felicità la parola felicità ricorre solo sei volte. Ne è il centro, ma non è protagonista. Ci si arriva alla fine a capire cos’è questo pieno di felicità promesso fin dal titolo, e come resiste fino all’ultimo, speranzoso e piccolissimo.

Per tutto il libro ci domandiamo se davvero la felicità risiede tutta nella ricerca del futuro, e alla fine quasi è sorprendente scoprire che ha un contorno preciso e una sostanza molto materiale. Per Cecilia la propria felicità deve necessariamente scollarsi dal futuro, nemmeno per un attimo ci viene in mente il contrario, è chiaro che abita in un presente – lo abbiamo imparato per tutto il libro – sempre incerto, difficoltoso; quando si svela, lo fa in una frase, come una rivincita. La descrizione della felicità altrui, invece, avviene attraverso circostanze che guardano in avanti, celebrando l’ottimismo delle relazioni e della crescita professionale.

Il pieno di felicità di Cecilia Ghidotti è un memoir per certi aspetti straziante, la prova di fatto di una serie di circostanze percepite come debolezze – l’inconcludenza, l’indecisione cronica, la proiezione altrove di un futuro migliore. Nessuno le chiede se è felice, lei stessa sembra pensarci mai, perché la felicità è un sottinteso che ha un prezzo alto e irraggiungibile, ma quando arriva, anche solo per un piccolo istante, è il caso di ricordarlo.

L’AUTRICE – Elena Marinelli vive e lavora a Milano, ma è nata in Molise, vicino a un passaggio a livello. Ha scritto per Abbiamo le prove, l’Ultimo Uomo e Gli 88folli. Il terzo incomodo (2015) è il suo primo romanzo. Qui i suoi articoli per ilLibraio.it.

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