“Il tarlo”, romanzo d’esordio di Layla Martínez, è un horror dalle atmosfere classiche, densissimo di tematiche: dall’ambivalenza dei rapporti familiari alla violenza di genere a quella di classe, passando per l’ereditarietà del trauma, in particolar modo quello femminile…

In questa casa non si ereditano soldi o anelli d’oro, o lenzuola ricamate con le iniziali, qui i morti ci lasciano solo i letti e il risentimento. Il cattivo sangue e un posto dove stenderti la notte, solo quello puoi ereditare in questa casa.

Il tarlo Layla Martinez

Una casa dall’apparenza ordinaria, nella campagna spagnola, appena fuori città, abitata solo da una nonna e una nipote. E da ombre, ombre di morti chiusi fuori dal paradiso, anime in cerca di rifugio che nel corso di generazioni si sono stabilite tra le pareti, sotto le scale, nelle credenze.

L’esordio narrativo di Layla Martínez, Il tarlo, è un romanzo a tutti gli effetti dell’orrore, breve (poco più di un centinaio di pagine), ma densissimo di tematiche. Nel solo spazio di un’abitazione, senza mai condurci realmente all’esterno, esplora con originalità questioni collettive: l’ambivalenza dei rapporti familiari, la violenza di genere e quella di classe e l’ereditarietà del trauma, in particolar modo quello femminile. Pubblicato in Spagna nel 2021, arriva ora in Italia con La Nuova Frontiera, nella traduzione di Gina Maneri.

La narrazione si apre con una voce che racconta in prima persona: è la nipote (rimarrà senza nome), appena rientrata dopo due settimane di carcere preventivo per un crimine che – confessa a noi lettori – non ha commesso. Il tono è tagliente, aggressivo, ogni parola è carica di rabbia, di un rancore quasi viscerale. Ma presto prende la parola la nonna e scopriamo che della narratrice precedente, forse, non possiamo fidarci. Così, di capitolo in capitolo, mentre la rabbia viva e il fuoco della giovinezza si alternano al rancore ormai sedimentato in fondo alla gola della vecchiaia, mettiamo insieme i pezzi e torniamo indietro nel tempo, svelando la storia delle due donne, della loro famiglia. E della loro casa.

Ispirata alla vera casa della famiglia dell’autrice, situata nei pressi della città spagnola di Cuenca, quella del romanzo è stata costruita dal bisnonno materno sulla violenza e la sopraffazione.

Nato in povertà, il futuro patriarca cerca il riscatto di classe in una società basata sullo status quo e, ben attento a non minacciare mai la sicurezza di chi sta al di sopra, lo trova attraverso lo sfruttamento di chi è più debole di lui: donne ingannate con promesse d’amore e condannate a una vita di prostituzione. Alla moglie riserva invece una vita domestica di botte e servilismo, in una casa che presto si ritrova invasa da presenze inquietanti.

Mobili e muri prendono vita, diventano ingordi, smaniosi, affamati. La casa e le ombre sono un tutt’uno e risuonano insieme in quel grat grat grat, quel tarlo del titolo che hanno dentro tutte le donne della famiglia. L’ambiente domestico diventa rifugio e trappola insieme, in una classica prospettiva patriarcale. Lì sono condannate a restare tutte le donne di questa famiglia, ad espiare una colpa indefinita di natura ereditaria.

Layla Martínez sceglie la casa come ambientazione de Il tarlo, confermando una classica tradizione della letteratura del terrore, a partire dal Settecento, con Il castello di Otranto di Horace Walpole, capostipite dell’horror moderno, e continuando con Edgar Allan Poe, Shirley Jackson e Daphne du Maurier. Fino ad a oggi con Stephen King.

Che sia un castello infestato, una villa stregata o una casa incantata, la sovversione di quell’aspettativa di sicurezza e protezione che caratterizza l’ambiente domestico trasforma ciò che è familiare in qualcosa di terrificante. Martínez riesce bene in questa operazione e fa lo stesso anche con i rapporti affettivi, tutti ambivalenti, rovesciati e per questo inquietanti. La maternità in particolare è ridotta all’osso e talvolta la gelosia sembra essere la leva al posto dell’amore. Persino la nipote si rivolge alla nonna chiamandola vecchia o brutta vecchiaccia: non c’è spazio per vezzeggiativi, solo e sempre dispregiativi. Ma non sono le parole, troppo facilmente ingannevoli (le donne della famiglia lo sanno bene, che le parole possono essere un’arma, strumento di controllo) a dimostrare l’affetto che nonna e nipote provano l’una per l’altra. Sono i gesti, anche in apparenza violenti, a tradire la forza del legame che le unisce, un cordone familiare che le tiene insieme nonostante tutto.

E il mondo fuori dalle mura? È quello che conosciamo e abitiamo, con vicini impiccioni, bugie e malelingue di chi non comprende chi è diverso da sé e anzi, lo teme e ne è attratto allo stesso tempo. Per questo gli abitanti del paese finiscono sempre per bussare alla porta della nonna, chiedendo aiuto con fatture e previsioni. Perché non si sa mai che effettivamente non ci sia qualcosa di vero in quella magia popolare che si fonde con il cattolicesimo, in quella casa, a suo modo incantata, in cui i santi sono sempre in ascolto e convivono con spiriti e ombre.

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