In occasione dell’uscita di “Seitu”, ilLibraio.it ha intervistato Giovanni Esposito (in arte Quasirosso), il cui ritorno alla narrazione a fumetti è più doloroso del solito. L’artista e fumettista, molto seguito anche sui social, ha parlato di relazioni e di mancanza, della sua arte e di cosa significa diventare adulti. Ma anche del suo passato (“Ho rimosso tantissime cose delle scuole superiori, perché ho subito bullismo, mi faceva troppo male”), di ritratti generazionali (“Non mi sono mai sentito tanto parte della mia generazione e non ho la pretesa di raccontarla”) e del messaggio che vorrebbe lasciare ai lettori con il suo nuovo lavoro (“Vorrei che passasse la sensazione di aver vissuto una storia d’amore che in realtà non c’è stata) – L’intervista

Giovanni Esposito, in arte Quasirosso (su Instagram, gio_quasirosso) è un artista e un fumettista. I suoi disegni spiccano nello scroll quotidiano per il tratto, per i colori, per il silenzio e per l’esplosione di emozioni che riescono a comunicare. Seitu è il suo nuovo graphic novel, pubblicato da Feltrinelli Comics.

Una storia in cui il malessere di un amore non pienamente vissuto, di una vita sospesa, conquista dalla prima vignetta. Quasirosso disegna nel suo stile inconfondibile la vicenda di Marco e Ilaria, due quasi-adulti, che per anni sono stati legati da una relazione quasi-finita. Gli spettri del non vissuto, del non detto, però, aleggiano nella testa di Marco e il ragazzo decide di abitarli, di viverli, per rimanere al sicuro nei limiti del suo mondo. Solo un incontro fortuito potrà aiutarlo a uscire da quel castello di convinzioni che ha creato nella sua testa, per accettare che il passato non può vivere nel presente, ma può diventare un tenero ricordo. 

ilLibraio.it ne ha parlato con l’autore in un’intervista via Skype.

quasirosso

Racconto e biografia: spesso, tramite i social, parla di quanto sia impossibile slegare le due cose nel suo lavoro. Quanto è difficile farlo? È possibile riuscirci?
“Penso che slegare del tutto il racconto dalla biografia non sia possibile, qualsiasi autore in un modo o nell’altro ci mette dentro un po’ di sé, anche semplicemente dei propri gusti, che sono comunque stati condizionati da un vissuto, da tutta una serie di esperienze che portano a preferire un elemento rispetto a un altro”.

In un’intervista ha parlato del fatto che una volta aveva provato a non mettere niente di suo in un’illustrazione, ma il riscontro era stato diverso rispetto a quando fa fluire all’interno dei suoi lavori la sua esperienza. I suoi lettori e i suoi followers se ne accorgono?
“Mi sono reso conto, pubblicando spesso su Instagram, che a ricevere più apprezzamenti sono i post per i quali mi sono protetto di meno. Quando racconti te stesso hai un po’ paura di essere giudicato, di mettere a nudo alcuni dettagli privati – ed è giusto così, non tutti siamo pronti a farlo. Però, quando espongo una parte di me senza proteggermi, senza raccontarmi bugie, senza volermi camuffare, i miei disegni arrivano prima”.

Quasirosso Seitu

E attirano più interesse. 
“La prima volta mi sono detto ‘Magari è l’algoritmo di Instagram ad aver funzionato in un certo modo’, la seconda volta pure, alla terza sono arrivato alla conclusione che magari non era solo una questione di numeri e algoritmi, che magari c’era qualcosa di più. Non sai mai fino in fondo quando il merito è dei numeri e quando invece è dei sentimenti. Noi tendiamo a vedere i social come se fossero solo un insieme di cifre, ed effettivamente lo sono, ma dietro quelle statistiche ci sono delle persone”.

C’è un potere, un qualcosa che l’illustrazione rilascia su di lei una volta che parte della sua storia viene affidato al disegno?
“È una questione di autoterapia: mettermi a nudo, prendere quello ho e affidarlo alla carta. C’è una parola attorno alla quale gira molto del mio lavoro: perdonarsi. Per attingere a qualcosa che hai dentro, magari anche una roba brutta, un tuo errore, che ti fa rivivere una serie di episodi, ti devi perdonare. Perché se non ti perdoni finisci per proteggerti, e se ti proteggi finisci per mentire”.

È tutto collegato, quindi.
“E
ssere sincero mi permette di non frapporre filtri fra quello che ho vissuto e quello che sto raccontando, e mi aiuta ad andare avanti su alcuni fronti. Seitu ne è un esempio perfetto: questo libro in realtà è nato da una storia vera che per anni mi sono portato dietro, mi sono trascinato a fatica e non trovavo modo di superare. Poi mi sono detto: ‘L’unico modo per farlo è disegnarla'”.

Quasirosso Seitu

Nei suoi lavori sono quasi sempre le immagini mute a parlare. Questo tipo di comunicazione è in controtendenza rispetto alla maggior parte degli illustratori sui social, dove la parola scritta è parte integrante del messaggio. Questo silenzio che popola i suoi disegni a cosa è dovuto, e cosa pensa possa regalare al lettore?
“All’inizio anche i miei fumetti erano pieni di parole, il mio primo libro andava in quella direzione. Poi, in realtà, la mia è stata una scelta di sincerità. Io sono dislessico, l’ho scoperto da grande, e da bambino ero anche balbuziente. Tutti mi raccontano che nei primi anni di scuola, invece di stare con gli altri bambini, restavo in un angolino a disegnare. Cercavo di attirare gli altri in quel modo, per interagire”.

E ci riusciva. 
“Il disegno è sempre stato un modo di comunicare. Niente di più niente di meno, come se si trattasse di respirare. Poi ho detto ‘Ok, se non parlo tanto nella vita e non uso granché le parole, posso fare lo stesso anche con i disegni. Se devo raccontare qualcosa, lo racconterò solo disegnando’. Che poi, a dirla tutta, sembrerà forse una controtendenza, ma ogni forma di arte, in senso tradizionale, si compone principalmente di sole immagini. Questa scelta oltretutto mi ha permesso di comunicare a livello globale: gran parte del mio pubblico è italiano, ma ce n’è anche una bella fetta che viene dal resto del mondo. Ci sono americani, spagnoli, brasiliani. Avevo fatto un’immagine, la prima versione del racconto di Seitu, che rappresentava il bacio di due figure in macchina. Una scena molto privata, che quasi non volevo pubblicare. Poi però mi sono convito e, quando l’ho fatto, mi è completamente sfuggita di mano. Se si cerca su Pinterest ‘illustrazione’, tra le prime cento immagini compare quella”. 

Quasirosso Seitu

In generale pensa sia sbagliato usare le parole nelle illustrazioni?
“No, semplicemente farlo non mi appartiene. È un mio modo di comunicare, mi ha dato la possibilità di relazionarmi con chiunque senza essere troppo didascalico. È un tipo di comunicazione grazie a cui chi vuole sentire si ferma un attimo e ascolta il silenzio, mentre chi non ne ha voglia può continuare a scrollare e a seguire il flusso dei post. L’idea che qualcuno possa fermarsi un attimo e dire ‘Cosa c’è in questa immagine? Che cosa sto vedendo?’ mi manda fuori di testa. Mi fa impazzire poter essere un piccolo guasto, un corto circuito nello scroll quotidiano”. 

In Seitu i temi affrontati sono tanti: la periferia, la partenza, il lavoro, gli amori impossibili, la solitudine, l’abbandono, il tutto profondamente intrecciato con ansia e solitudine. La storia è quella di Marco, ma potrebbe essere quella di un qualunque Millennial. La storia di Ilaria e Marco si connette a quella di una generazione intera?
“Sarò sincero: quando ho scritto questo libro non volevo parlare di una generazione. È una storia mia, che volevo raccontare quasi a me stesso. Poi gli altri ci si possono identificare e a me fa piacere, però non ho lavorato da quel punto di vista. Tutti questi temi sono un po’ nascosti, sono un sottotesto, perché, per quanto io voglia distaccarmi dalla storia, per forza di cose nei miei disegni c’è una parte di me. C’è il disagio della provincia che ho vissuto e che sto ancora vivendo, del non parlare fra di noi, del fatto che ci aspettiamo che gli altri ci capiscano senza che noi diciamo nulla, però non ho la pretesa di raccontare una generazione”.

Come mai? 
“Non mi sono mai sentito tanto parte della mia generazione, né di quella precedente né di quella successiva. Si tende a ragionare per generazioni dimenticando il fatto che siamo tutti esseri umani. Durante la fase di scrittura e disegno del graphic novel ho parlato con tante persone, riscontrando che tutti hanno avuto il problema di idealizzare qualcuno – il che, alla fine, è un po’ il fulcro del libro. Capita a tutti, a prescindere dalla generazione a cui si appartiene. Siamo tutti esseri umani”. 

Quasirosso Seitu

Marco è un sopravvissuto, la sua storia d’amore lo ha lasciato sospeso. Vive di proiezioni, più che di ricordi, e questo fa di lui un personaggio a metà tra un mondo reale e uno onirico. Come riesce a fare i conti con il suo passato? Si tratta di crescere o di accettare?
“La parola che mi viene in mente è un po’ a metà fra le due cose, ed è: arrendersi. Cresci quando ti arrendi a determinate cose, quando ti arrendi al mondo e inizi a reagire. Marco arriva a un punto massimo di disagio, di perversione, e ci si immerge totalmente per non arrendersi, iniziando a scavare sul fondo. Vive un’illusione che è solo nella sua testa. E cresce solo quando Ilaria lo mette spalle al muro con la sua verità, con tutto quello che Marco non aveva potuto accettare. Allora si arrende, per trasformare quell’ossessione in un ricordo”.

Ci spieghi meglio.
“I ricordi sono un materiale prezioso. Spesso, per non soffrire, tendiamo a dimenticare. Anche io ho rimosso tantissimi eventi delle scuole superiori, per esempio, perché sono stato vittima di atti di bullismo e ho inconsciamente cancellato quello spazio della memoria che mi faceva troppo male. Ora però un po’ me ne pento: quei ricordi potevano darmi altro, potevano portarmi indietro nel tempo per recuperare il buono che avevo vissuto in quegli anni. Questo era il processo che volevo mettere in atto con Marco, un personaggio che ha toccato il fondo, che è stato salvato dalla realtà, ma che non vuole dimenticare cosa ha passato. Non vuole dimenticare ciò che amava di Ilaria. Non vuole dimenticare perché l’ha amata”. 

Foto di Giovanni Esposito, alias Quasirosso

Giovanni Esposito (Quasirosso)

Come nel caso di Macerie Prime di Zerocalcare, questo fumetto mette in scena quello che sono le macerie prime di un giovane adulto. Nel fumetto di Zerocalcare, però, i protagonisti subiscono questo crollo dopo i trenta anni. È un argomento che si ripete, ma nella generazione degli anni Novanta sembra che questo primo crollo si raggiunga prima. Come si sopravvive alle macerie secondo Marco, e come è invece sopravvissuta Ilaria?
“Io racconto la storia dal punto di vista di Marco. Passo a quello di Ilaria solo per quel ‘Vaffanculo’ finale, perché era importante vederlo tramite gli occhi di lei. Marco si augura che lei sia cresciuta, cambiata, ma non lo sa per certo. Invece lui sopravvive buttando giù un castello di carte che aveva costruito nel corso degli anni. Un castello di menzogne edificato per proteggersi, per non assumersi le colpe della fine di un rapporto. Non si era reso conto di aver completamente trascurato Ilaria e, quando avviene l’incontro con lei, si accorge di quanto tempo abbia passato chiuso in se stesso, nel suo mondo, pur di non accettare la verità. Fa i conti con il suo passato e può ricominciare, uscire, continuare a vivere. Il finale è, in questo senso, l’espressione di una nuova vita: Ilaria è un ricordo, non più un’ossessione, e quindi Marco può lasciarsi andare a una nuova conoscenza, a una ragazza che progetta le montagne russe, il lavoro che lui ha sempre sognato di fare”. 

Come ha strutturato questo libro? Come le piace lavorare quando disegna?
“Il libro è fatto completamente in digitale e ha all’interno delle citazioni ad altre mie illustrazioni. Volevo lasciare qualche piccolo Easter egg a chi mi segue da tanto. Una sorta di minigioco. Ogni parte della storia ha una palette diversa, in base a quello che volevo comunicare. Ho sempre paura di fossilizzarmi su una sola cosa, ho paura di rimanere fermo. Per esempio, su Instagram vanno particolarmente i profili che hanno uno stile grafico e una palette comune tra le illustrazioni, invece il mio è un casino totale, con immagini che sembrano messe dentro a casaccio”.

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Ha dei pittori o degli artisti a cui si è ispirato per questo nuovo lavoro?
“Quando immaginavo Seitu, pensavo di girarlo più che di disegnarlo. Volevo che le scene potessero essere girate. Per questo molti riferimenti vengono da film. Eternal Sunshine of the Spotless Mind, Her, Io e Annie, tutti film che ho amato. Marco è un po’ Jim Carrey in Eternal Sunshine: volevo quel modo di apparire, un po’ suo e anche un po’ mio. Dal punto di vista del disegno, ecco, sono stato un po’ io la mia reference per il discorso degli Easter egg: quindi mi sono rifatto al mio lavoro passato e poi a Klimt, Schiele, Caravaggio. Dopo le scuole medie ho fatto il geometra e ho quasi smesso di disegnare liberamente. In seguito ho continuato gli studi all’Accademia delle Belle Arti. Il professore di anatomia mi disse che avevo un tratto troppo tremolante, che lo dovevo cambiare. Mi assegnò degli esercizi che non riuscivo a fare. Era molto frustrante, mi sentivo malissimo. Poi conobbi Klimt e Schiele e notai questo tratto tremolante, in particolare di Schiele. Mi hanno dato la conferma del fatto che del mio tratto potevo farmene qualcosa. Era sbagliato, non classico, tremolante, ma adesso mi caratterizza ed è mio”. 

Cosa vorrebbe che rimanesse di Seitu ai lettori una volta chiusa l’ultima pagina?
“Non mi sono posto l’idea di come sarebbe stato recepito… A questo punto risponderò anche a me stesso. Forse vorrei che passasse la sensazione di aver vissuto una storia d’amore che in realtà non c’è mai stata. Una sorta di grande paranoia, che è nata ed è stata smontata, poi, da un evento esterno. Quella specie di sensazione di trovarsi senza niente tra le mani, soli. Dall’altro lato appunto, vorrei che rimanesse il messaggio della chiusura da evitare, ovvero dei ricordi da non lasciare andare necessariamente, nel tentativo di capire che quelle cose fanno parte di noi in ogni caso e che, anche se ci hanno fatto soffrire, hanno contribuito in qualche modo alla persona che siamo e a quella che saremo. E basta… questo”.

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